“Il Green Pass sembra un certificato di rettitudine con bollo ministeriale”: una lettera accorata del direttore Cappella Sansevero

Riflessioni sul Green Pass di Fabrizio Masucci, ex direttore Cappella Sansevero

“Quando ho fatto notare le mie preoccupazioni,una risata di preoccupata comprensione era la reazione più frequente”

Sono passati oltre cinque mesi dalla mia lettera di dimissioni ed è dallo scorso 5 agosto che non metto piede nella Cappella Sansevero, pur non avendo alcun impedimento formale o sostanziale a farlo. Non c’è stato un solo attimo, in tutto questo tempo, in cui io mi sia pentito della mia decisione o abbia sentito anche solo vagamente dentro di me l’urgenza di rimetterla in discussione.

“No al Green Pass”: si dimette direttore del Museo Cappella Sansevero

 

Ricordo che già a giugno, quando fu pubblicato il regolamento europeo per la circolazione tra i Paesi dell’UE e fu quindi varato il gxxxn pxxs, mi affannavo a dire che tale strumento sarebbe stato adottato anche all’interno dei territori nazionali – e sicuramente di quello italiano – e che ne avrebbero introdotto l’obbligo, pur contro ogni logica, anche per l’accesso dei visitatori ai musei. Alle poche persone molto vicine che avevano la pazienza di ascoltarmi – e riconosco che di pazienza ce ne voleva molta – annunciavo inoltre che, se ciò si fosse verificato, mi sarei dimesso. Una risata di preoccupata comprensione era la reazione più frequente, come si farebbe di fronte a un visionario ossessionato che minacciasse gesti estremi qualora si fosse abbattuta una pioggia di fuoco sul pianeta. Poi, nei convulsi giorni dal 22 luglio al 2 agosto 2021, data delle mie dimissioni, nessuno rideva più.

 

 

Aggiungo, inoltre, che persino i pochissimi amici che condividevano con me un punto di vista aspramente critico sulla gestione della pandemia hanno provato in quel frangente a dissuadermi in ogni modo, sia per ragioni di apprensione e affetto, sia per semplice opportunità e prudenza, in quanto ritenevano che il gxxxn pxxs “all’italiana” fosse con buone probabilità destinato a vita breve, vuoi per questioni di legittimità vuoi per altre plausibili motivazioni. Rischiavo, in sostanza, di compiere un atto decisivo e plateale – gravido di conseguenze e di reazioni non propriamente benevole – per nulla. Nonostante i loro premurosi consigli, che ho meditato e di cui li ringrazio ancora, ho scelto di dimettermi perché mi ero persuaso, al contrario, che la mala pianta del gxxxn pxxs avrebbe felicemente prosperato, dando alla luce i suoi mostruosi germogli. Quando si accettano misure irrazionali o – a voler esser generosi – irragionevoli, la strada è segnata.

 

 

Rileggendo oggi la mia lettera, devo dire che non cambierei niente. Solo una cosa, che già sostenevo allora e che con il tempo si è delineata ai miei occhi con accresciuto nitore, mi spiace di non aver scritto espressamente: che il gxxxn pxxs assomigliava, e sarebbe assomigliato sempre più, a un attestato di buona condotta, a un certificato di rettitudine morale con bollo governativo, piuttosto che a uno strumento davvero utile ai fini dichiarati dall’esecutivo. Svuotatosi via via di una logica saxixaxia che potesse anche blandamente giustificare il suo valore dirimente per l’esercizio delle più elementari libertà personali, il gxxxn pxxs era destinato a divenire sopra ogni cosa un simbolo identitario collettivo con funzione premiale. Chi, al suono delle fanfare governative, avesse italicamente creduto, obbedito e combattuto, perché animato da patriottici furori o da comprensibile strizza, da ben ponderati calcoli personali e familiari o da uno scetticismo non sufficiente a controbilanciare la sola prospettiva della reprimenda sociale pseudoprogressista, si sarebbe fatalmente convinto che la medaglia in petto dovesse valere a qualcosa. Ed eccolo il premio, bell’e servito, l’unico che il pur premuroso governo poteva e può offrire ai suoi integerrimi accoliti: la punizione per chi la medaglia in petto non ce l’ha, o se anche l’ha ricevuta l’ha riposta subito in tasca, non intende esibirla e anzi si batte affinché non debba esibirla nessuno. Non importa più nulla se la medaglia conferisca il magico potere dell’invincibilità o si dimostri poco più di un pezzo di latta. L’importante è la medaglia che ci affratella, e crepi chi non ce l’ha.

 

 

Una strategia politica che ha scelto una e una sola strada da battere a rotta di collo, ben oltre i limiti della monomania, una stampa che non ha mai chiesto conto della reale fondatezza di tale strategia e l’ha anzi propagandata come verbo, una comunicazione imbarbarita a tutti i livelli, che ha solleticato irresponsabilmente i più bassi istinti dell’essere umano, hanno generato l’entusiastica, disinteressata o rassegnata adesione della maggioranza dei cittadini al totem di virtù italiota. Tale adesione ha a sua volta alimentato il circolo vizioso, inducendo fisiologicamente i governanti a sentirsi liberi di raddoppiare, triplicare, decuplicare le puntate, con morbosa frenesia, sull’unica carta scelta all’inizio e di non domandarsi se la carta fosse davvero così vincente o se potesse almeno valere la pena di diversificare e integrare la strategia. Arrivati a questo punto, è purtroppo assolutamente naturale che chi ha perseverato con foga nell’errore, forse mal consigliato, non abbia il coraggio di fare pubblica ammenda e che anzi si convinca, magari anche in buona fede, che sia giusto insistere lungo l’unico solco tracciato. Mi pare che in tutta questa vicenda ci si soffermi troppo poco sulle dinamiche prettamente piscologiche dei governanti e della massa dei governati, e sull’innesco reciproco di tali dinamiche. Credo, invece, che esse spiegherebbero molto o quasi tutto, senza che vi sia alcuna necessità di strologare su cospirazioni globali o anche semplicemente su cattive intenzioni individuali.

 

 

Non scrivo tutto questo per rivendicare il ruolo, peraltro poco gradevole, di Cassandra, ma anzi per constatare che la realtà ha superato persino le mie più torbide previsioni. Non mi sono illuso neanche per un istante (figuriamoci!) che la mia lettera servisse ad alcunché e avevo una visione estremamente pessimistica sulla piega che stavano prendendo le cose, ma ammetto che non immaginavo una tale assenza di integrità, di onestà intellettuale, di senso della responsabilità, di banale buonsenso nella società civile, nelle parti sociali, nella magistratura e nelle istituzioni di garanzia. Se siamo arrivati al punto che nei prossimi mesi i più basilari diritti dipenderanno dall’essersi sottoposti o meno a un terzo trattamento saxixaxio o dall’essersi buscati o meno, durante le feste natalizie, quello che per fortuna si è rivelato nella quasi totalità dei casi un raffreddore con qualche linea di febbre, beh, è perché non sono stati detti i “no!” nelle sedi e nei momenti opportuni.

 

 

Nei mesi scorsi ho conosciuto tante persone che non avrei probabilmente mai avuto il piacere di incontrare se non fosse accaduto tutto questo. Voglio riportare le parole di uno di loro, Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia contemporanea, che andrebbero scolpite nel marmo:

“Chi appoggia o giustifica questa persecuzione ignobile e insensata, chi non si ribella e si oppone ad essa in tutte le sedi possibili, abdica alla propria intelligenza e dignità, condivide con un potere squalificato la responsabilità dei danni spaventosi che ne derivano, si taglia fuori da ogni legittimazione democratica e civile ora e in avvenire”.

Condivido integralmente, felicissimo di non essermi compromesso con questo neotribalismo travestito da solidarietà, con questa sagra dei buoni risentimenti, con questa fuga della ragione. In una parola, con questo degrado.

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Autore dell'articolo: GG

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