Una delle malattie più diffuse è la diagnosi : adesso trattiamo anche i sani!

«Le persone sane sono malati senza saperlo».
Nel paesino di Saint-Maurice, il Dottor Parpalaid, medico condotto, decide di cedere il posto a un giovane collega, il Dr. Knock che, deluso dallo stato di buona salute degli abitanti del villaggio, si rende disponibile per consultazioni gratuite, durante le quali insinua nei suoi interlocutori l’idea di essere ammalati.

Per tutti, prescrive terapie di lungo corso, alleandosi col farmacista e trasformando il municipio in una clinica.

Parpalaid, venuto a sapere della situazione, cerca di recuperare il suo posto, ma l’oratoria di Knock è tale da convincerlo di essere ammalato e di doversi far curare…

Correva l’anno 1923 e l’idea di applicare la pubblicità alla medicina, in un’epoca in cui le prime reclames intensive venivano favorevolmente esportate da oltre Atlantico in Europa, e la capacità suasoria di Knock di piegare la mente di tutti, che sembrava preludere alla instaurazione delle grandi dittature europee, garantirono il successo a una pièce teatrale, che giocava su quello che pareva essere un vero e proprio paradosso.

La circostanza immaginata da Jules Romains in “Knock, ovvero il trionfo della medicina”, era, invece, tragicamente premonitoria.

Ci ha messi in guardia, più di vent’anni fa, anche Ivan Illich in “Nemesi Medica”, disegnando il rischio di trasformare, in un futuro prossimo, tutte le persone in buona salute in altrettanti – più o meno potenziali – malati.
Mentre un tempo si inventavano medicinali contro le malattie, ora si inventano, infatti, malattie per generare nuovi mercati di potenziali pazienti.

Nel 1976, Henry Gadsen, allora direttore della casa farmaceutica Merck, dichiarò alla rivista Fortune: «Il nostro sogno è produrre farmaci per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque».
A distanza di più di 30 anni, il suo auspicio sembra essersi realizzato: camuffate, spesso, con l’abito della prevenzione, le strategie di marketing farmaceutico hanno infatti oggi come target non il malato, ma la persona sana.

Per poter mantenere inalterato il mercato degli anni passati, sostenuto da mutualismo e gratuità, l’industria della salute deve rivolgersi alle persone sane.

Questo fenomeno prende il nome di “disease mongering” ed è una pratica insidiosa, spesso invisibile, che può comportare il rischio di scelte terapeutiche inadeguate, malattie iatrogene e danni alla sostenibilità economica del sistema sanitario, sottraendo risorse utili.
«Chissà come la gente moriva prima dell’invenzione di tante malattie?» (S.J. Lec)

Tre sono i piani su cui queste strategie morbigene agiscono: il piano quantitativo, che prevede l’abbassamento dei parametri che definiscono la frontiera del “patologico” (a esempio, nel caso di ipercolesterolemia, ipertensione, diabete); il piano temporale, che consiste nella promozione e nella diffusione di pratiche di screening, la cui efficacia è incerta oppure non ancora dimostrata; il piano qualitativo, che trasforma in condizioni medico-sanitarie situazioni che dovrebbero far parte della normalità della condizione umana (G. Domenighetti).
Anche la vecchiaia, come già diceva Terenzio (Senectus ipsa morbus est) è diventata un morbo…

Non a caso, nel 2002, la prestigiosa rivista Bmj ha pubblicato una “Classificazione internazionale delle non-malattie”, contenente più di 200 condizioni ritenute a torto come patologiche, camuffate da aulica terminologia medichese: in questo modo, la timidezza che imporporava le guance, è diventata Disturbo d’ansia sociale e noia, forfora, calvizie e menopausa si sono caricate di funesti presagi, invocando specifici trattamenti.

Oltre a inventare nuove malattie e a medicalizzare condizioni fisiologiche, allora, il disease mongering, focalizzando un’attenzione esclusiva su soluzioni farmacologiche o tecnologiche, esclude una comprensione ampia delle dinamiche, che ruotano intorno alla salute, nel suo ventaglio di implicazioni biologiche, psicologiche e sociali, approfittando del fatto che «il desiderio di prendere medicine è forse la più grande differenza fra l’uomo e l’animale» (W. Osler).

Su questa debolezza, giocano le campagne di marketing dei nuovi prodotti, in un gioco di tacite alleanze tra settore farmaceutico, medici, opinion leader e mezzi di comunicazione.
Ma non è un caso che il termine greco che indicava il “capro espiatorio”, fosse phàrmakon (????) e che, da esso, derivi il nostro lemma col significato di “medicina”.

Già nell’antichità, l’osservazione aveva evidenziato che il phàrmakon può svolgere un effetto benefico o nocivo, in relazione alle quantità impiegate e alle reazioni individuali: le dynàmeis del farmaco, le sue potenzialità – e i suoi effetti, quindi – dipendono dagli dèi e dalle mani di chi le somministra, ma, soprattutto, dalla purezza del medico, proprio perché il phàrmakon ha un profondo valore religioso e ambivalente, che ancora oggi sopravvive nella parola inglese drug.

E il rimedio deve corrispondere alla malattia, da cui è strettamente dipendente: Ippocrate (V sec. a.C.) raccomandava il ripristino dell’equilibrio, in una concezione della malattia come discrasia umorale; salus e salvezza erano cercate, nel Medioevo, all’interno dei santuari… ogni epoca e ogni corrente di pensiero ha disegnato un diverso concetto di cura, proponendo diversi trattamenti e terapie, prescrivendo rimedi e farmaci, calibrati sull’idea principe di malattia.

In realtà, come la storia di oggi ci insegna, «una delle malattie più diffuse è la diagnosi» (K. Kraus).

Donatella Lippi (Storia della Medicina, Università di Firenze)

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Autore dell'articolo: GG

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