La pietà nel mondo animale.
George Hoggan, il giovane e brillante fisiologo inglese che dalle sue esperienze come assistente di Claude Bernard fu portato a promuovere il primo movimento antivivisezionista organizzato riferì un incidente, cosi banale che nessun’altra persona in quel triste laboratorio del Collège de France lo aveva notato.
Un cagnolino, i cui arti posteriori erano rimasti paralizzati da un esperimento appena compiuto, era stato tolto dal tavolo operatorio buttato in terra. Cominciò a trascinarsi verso un angolo del laboratorio dove si trovava un cane da caccia che era stato accecato alcuni giorni prima per un altro esperimento e che veniva tenuto in osservazione. I suoi occhi avevano cominciato a putrefarsi.
Con uno sforzo, questo cane cieco si alzò in piedi, andò a tentoni incontro al cagnolino semiparalizzato e con uno scodinzolìo affettuoso gli si strofinò contro. «Questo gesto patetico di mutua solidarietà» commentò Hoggan «svergognava il genere umano».
I vivisettori ci rivelano aspetti dell’animo umano che la gente normale non suppone esistano. Se la nota frase «Più conosco gli uomini e più rispetto gli animali» è molto più che una battuta ciò è dovuto a gente come i vivisettori, che hanno cosi scarso il concetto della pietà da cercare di difendersi con facili slogan come «la vera pietà è quella per gli uomini.»
Nessuno ha mai tentato di spiegare perché la pietà verso i propri simili dovrebbe essere più meritevole che la pietà verso altre specie. Semmai è meno meritevole, perché vi entra sempre un calcolo egoistico, dei vantaggi materiali che derivano dalla solidarietà di gruppo.
Ma chi si sobbarca alla non gradevole fatica di perorare la causa degli animali, non lo fa perché lo considera più importante che adoperarsi per gli uomini, ma perché gli animali non hanno voce né voto, perché il marcio è troppo nascosto, l’ipocrisia che lo rende possibile troppo vergognosa per il genere umano. E alla fine si vedrà che, adoperandoci per gli animali, ci saremo adoperati anche per gli uomini.
Non può stupire che i paladini della vivisezione s’intendano così poco di pietà da non sapere che di pietà ce n’è una sola; che chi ha pietà per gli animali ha anche pietà per gli uomini, e che in tutte le nazioni dove è più sviluppata la protezione degli animali, come la Svezia, la Danimarca, 1 Inghilterra, sono anche più protetti i malati, i vecchi, le ragazze madri e i bambini abbandonati.
Non è difficile trovare antivivisezionisti che si sono distinti per servizi resi all’umanità. Charles Bell si recò in Europa espressamente per curare i feriti della battaglia di Waterloo. Albert Schweitzer dedicò gli ultimi decenni della sua esistenza a curare gli indigeni nel cuore dell’Africa nera, sobbarcandosi nonostante l’età avanzata a faticosi giri di conferenze e concerti in Europa per raccogliere i fondi necessari alla sua attività filantropica.
Del Cardinale Manning, che tanto influenzò il governo inglese a varare la prima legislazione in materia di vivisezione, perfino l’Enciclopedia Italiana rileva: «Grandissimo l’amore che ebbe per i poveri e fruttuosissima la sua azione sociale». E tra i fondatori della prima società per la Protezione degli Animali in Inghilterra (1824), si trovano i medesimi individui che già si erano impegnati, tra la derisione e l’opposizione generale, in altre lotte umanitarie: William Wilberforce, che si era battuto contro lo schiavismo e lo sfruttamento infantile, e Fowell Buxton e James Macintosh, ricordati per avere propugnato la riforma carceraria.
Per contro, riesce difficile immaginare un medico che al mattino tortura animali e al pomeriggio si avvicina con tenerezza ai suoi malati. Chi conosce gli animali e anche il mondo della vivisezione non può essere d’accordo sul senso che comunemente si dà ai termini di “atto umano” e “atto bestiale”.
“Le bestie” sono capaci di una “umanità” che manca a troppi esseri umani; e conoscono anche la pietà.
Fin da quando ero bambino mio padre mi aveva fatto notare come le formiche portano via i cadaveri delle loro compagne. Mi diceva: «Vedi, non le abbandonano. Chissà che non le sotterrino con qualche rito?» Ho rivisto da allora varie volte lo spettacolo delle formiche che s’incamminano per chissà dove trasportando tra le mascelle una compagna morta. Ma è soltanto da poco che ho capito che la domanda di mio padre era forse più che una battuta: quando ho letto che le formiche compiono anche interventi chirurgici.
Nel marzo 1973 la stampa internazionale riportava che l’entomologo russo Marikovskij, il quale aveva filmato per lunghi mesi la vita di colonie di formiche amazones, nel proiettare un film ingrandito ha potuto osservare due formiche che resecavano un’escrescenza dal corpo d’una “paziente”. Inoltre ha osservato tre formiche che estraevano una minuscola scheggia dal fianco d’una compagna. Gli interventi furono eseguiti in uno spazio antistante il formicaio. Mentre i “chirurghi” operavano, le altre formiche della colonia facevano cerchio intorno alla paziente. Tutto ciò non solo dimostra un alto livello d’intelligenza, ma anche di altruismo, perché è lecito assumere che le formiche-chirurgo non abbiano in seguito presentato una salata parcella alla consorella operata.
Tra i tanti crudeli “esperimenti sul comportamento”, oggi tanto in voga, uno recente ha dimostrato “scientificamente” l’umanità degli animali.
S. J. Diamond dell’University College di Cardiff, Inghilterra, ha constatato che un ratto premeva ogni volta una leva quando ha scoperto che ciò salvava un compagno che stava annegando. Una scimmia rinunciava a premere una leva che doveva fornirle il cibo quando si accorse che l’uso della leva procurava allo stesso tempo una scossa elettrica ad un altro animale: quindi la scimmia preferiva non mangiare piuttosto che infliggere dolore a una compagna.
Il dott. Diamond, evidentemente attonito, ha tratto la conclusione che «questo genere di esperimenti sembra dimostrare una specie di altruismo in animali non umani». (Daily Telegraph, Londra, 9-9-1970.)
Qualsiasi vero conoscitore degli animali avrebbe potuto dire al dott. Diamond che essi conoscono ciò che gli sperimentatori evidentemente non conoscono: la compassione.
Lo stratagemma degli struzzi riferito prima non è soltanto. una chiara prova d’intelligenza, ma anche d’amore e d’altruismo; è prova che gli animali sono capaci di sacrificarsi, non solo per la prole, ma anche per altri membri della loro specie.
Degli uccelli più piccoli è noto l’attaccamento territoriale a singole parti d’un bosco, che rappresentano il loro spazio vitale, e per assicurarsene l’esclusività nascono tra di essi lotte cruente. Però spesso i feriti non vengono abbandonati al loro destino. Fratture vengono “ingessate” con fango a regola d’arte.
Si sapeva già da tempo che lo fanno la beccaccia e la cutrettola grigia. Ora vi si può aggiungere, anche e soprattutto, il pettirosso, il quale sta affascinando gli ornitologi.
Osservazioni prolungate per mesi, e riprese filmate, hanno rivelato che un pettirosso ferito riceve sollecite attenzioni, e per lo più dallo stesso rivale che lo ha sconfitto; il quale può nutrirlo per mesi di seguito, anche a costo di rinunciare alla “villeggiatura”, ossia a seguire gli stormi migratori, mettendo così a repentaglio la propria esistenza. Semplice “istinto”, questo? L’istinto lo spingerebbe anzitutto a mettere al sicuro la propria pelle.
Vittorio Menassé ha riportato in Animali e Natura che per valutare sino a qual punto può arrivare l’egoismo dell’automobilista al volante, si è voluto fare un esperimento allestendo un finto incidente su di un’autostrada, sul ciglio della quale è stata sistemata un’automobile fracassata e un uomo con gli abiti intrisi di finto sangue. Decine e decine di macchine sono passate davanti alla tragica scena senza fermarsi, anzi accelerando onde allontanarsi al più presto… Ma ormai tutti sanno che nella nostra civilissima epoca uno sventurato può morire per mancanza di soccorsi tra la generale indifferenza lungo una strada percorsa da centinaia di persone.
«Questo fatto di cronaca» scrisse Menassé, «mi è stato richiamato alla mente da un episodio avvenuto a Legnago. Un passero ferito caduto in mezzo alla strada era stato circondato da alcuni altri passerotti che, incuranti del traffico, si sforzavano di portarlo in salvo. Un automobilista (esistono dunque anche automobilisti che sono veri esseri umani) si fermò improvvisandosi vigile urbano per impedire il traffico nel punto occupato dagli uccelletti; anche altri automobilisti si fermarono, facendo crocchio intorno ai passeri che, incuranti della presenza di tanti uomini, si sforzavano di soccorrere il compagno ferito. Lentamente, con fatica, gli uccelletti riuscirono a portare l’infortunato sul ciglio della strada, quindi su un prato limitrofo; poi, dopo alcuni mo- menti di riposo, con grande sforzo collettivo, lo afferrarono portandolo a volo in salvo al di là del muro di cinta d’un giardino.
È un episodio che fa meditare » commenta sempre il Menassé. « In queste piumate creaturine c’è qualcosa di più dei pochi grammi di carne con cui arricchire un piatto di polenta. È un episodio che indica chiaramente come non sia lecito considerare questi minuscoli esseri come semplici creature vegetative incapaci di reali sentimenti. I passerotti, perseguitati dagli uomini, non hanno esitato a soccorrere un loro simile nonostante la vicinanza di tanti uomini di cui non potevano conoscere l’inusuale benevolenza nei loro confronti.»
C’è anche lo sconcertante caso dei lemming, i topi artici che periodicamente migrano verso il mare e vi si buttano dentro, suicidandosi in massa perché si sono moltiplicati troppo. Ci sono i ratti di città i quali, quando scoprono cibi avvelenati, sparsi espressamente dall’uomo, vi fanno sopra i loro bisogni, per avvertire i compagni meno sagaci.
C’è l’esempio di molti animali selvaggi che si rifiutano d’accoppiarsi in cattività, come se non volessero mettere al mondo figli in tale triste condizione, e di quelli che, avendone messi al mondo, preferiscono lasciarli morire, rifiutandosi di allattarli o addirittura divorandoli alla nascita; sebbene allo stato libero questi stessi animali, ad esempio le tigri, curino i propri figli con una tenerezza e un’abnegazione che molti esseri umani dovrebbero prendere ad esempio.
L’uomo potrebbe prendere ad esempio anche la saggezza e l’abnegazione di cui fanno mostra gli animali nell’allevare la prole, senza mai cercare di dominarla, e poi se ne staccano gradualmente, osservandola a distanza, a sua insaputa, per renderla indipendente. Solo quando vedono uno dei loro piccoli in serie difficoltà, accorrono in suo aiuto.
Erwin Liek, il tedesco di Danzica che fino al 1935 fu notissimo in Germania e anche all’estero come medico e come chirurgo nonché come scrittore scientifico, riferisce alcuni casi interessanti in Gedanken eines Arztes (“Pensieri di un medico”):
«In un acquario, una grossa aragosta cade sul dorso e non riesce più a raddrizzarsi a causa del suo pesante scudo dorsale. Le sue compagne si precipitano ad aiutarla e dopo numerosi tentativi riescono a rimetterla in piedi…
Nel Sudamerica vi sono dei roditori, viscachas, simili ai nostri conigli, che danneggiano le colture. Periodicamente i contadini otturano le uscite dei loro corridoi, imprigionandoli, ma poi accorrono i compagni e li liberano.
È un chiaro caso di altruismo e amore del prossimo. Così gli stambecchi e anche altri animali adottano i piccoli orfani».
Erasmus Darwin, il medico, naturalista e poeta che fu il nonno di Charles Darwin, aveva osservato che durante il periodo in cui un’aragosta cambia il guscio e quindi è vulnerabile, alcune compagne le montano la guardia, e aveva visto pellicani che nutrivano un compagno cieco, sebbene ciò comportasse un volo di 30 miglia per portargli i pesci dal mare. Lo zoologo tedesco Brehm ha riferito di due cornacchie che per varie settimane portavano il cibo a un compagno ferito, e si conoscono molti casi di ratti che approvvigionavano compagni ciechi.
Le scimmie portano al sicuro le compagne ferite dai cacciatori, anche a rischio della propria vita. Il loro dolore per la morte di un membro del gruppo è così umano, così commovente, che molti cacciatori che hanno ucciso una scimmia, non ne uccidono mai più.
È la compassione che spinge il cane a rischiare la propria vita per difendere il padrone, e, se necessario, a sacrificarsi per lui. Io ho visto una nidiata di gattini dell’età di tre o quattro mesi abbandonare il loro cibo, per quanto affamati fossero, e stringersi con indicibile ansia intorno a un loro fratellino malato quando costui veniva afferrato da crampi e piagnucolava.
Mia moglie ha poi voluto ripetere l’esperimento e si metteva a piagnucolare sul letto non appena ai gattini affamati veniva presentata la ciotola del cibo: i gattini abbandonavano il piatto per stringersi intorno a lei.
Quando due animali selvaggi si scontrano in un duello, quello che sta per soccombere s’immobilizza supino, aprendo le zampe in segno di resa, come per chiedere grazia; e di solito la ottiene.
Ma certo non mai in un laboratorio.
Il pdf di Imperatrice Nuda scaricabile anche da questo link : http://www.dmi.unipg.it/~…/sci-dem/nuocontri_1/ruesch_IN.pdf