Se la follia è biologica, c’è il rischio che tutti veniamo internati.

A chi conviene confinare la follia solo in senso biologico?

Il lento e strisciante ritorno dei Manicomi

Una riflessione dell’antropologo della salute, Federico Divino

Minacciosamente e di soppiatto sta rientrando dalla finestra quel pericolosissimo concetto di “malattia mentale” ed il suo altrettanto irrazionale opposto di “sanità”, che la fenomenologia ha faticosamente messo alla porta negli anni passati e che, pur con la cocciuta resistenza dei tecno-clinici che hanno insistito a servirsene fino ad oggi, non aveva quell’efficacia performativa e procedurale che avrebbe avuto se l’Antropoanalisi non si fosse messa di traverso.

Ma, a dispetto delle apparenze, non sono quei “medici nell’età della tecnica” di jaspersiana memoria che oggi stanno cercando di reintrodurre questa dicotomia spaventosa. Almeno non più del solito.
A chiederla a gran voce sono invece tutti gli altri. È la vittima, non il carnefice, che grida per essere seviziata.

Perché un comportamento tanto illogico, vi chiederete.

In realtà non è consapevole, ma quando si vive costantemente a contatto con un intero sistema di organizzazione socio-culturale meccanicisticamente funzionale ad immagine e somiglianza della tecnica, ecco dunque che non è neanche possibile pensare ad un’altra via, e tutto il resto semplicemente ci spaventa, o ci fa pensare che sia troppo faticoso per farsene carico. I segni permeano gli aspetti sociali, ma oggi l’unico segno dominante è quello della tecnica. Questa è l’unica, devastante e poderosa idea che spadroneggia nel mondo contemporaneo.
Ma andiamo con ordine. Nel poco tempo libero di cui posso disporre mi diletto a studiare le posizioni pubbliche di colleghi che come me si occupano di Antropologia della Scienza, Antropologia Medica o Sociologia della Salute, e spesso incappo anche nelle posizioni pubbliche di altri che finiscono con l’inquietarmi non poco, ricolme di quel finto modernismo un po’ chic e traboccanti di discorsi farciti della vuota litania retorica del “adesso anche basta, è ora di guardare avanti”, ma avanti rispetto a cosa? Facile mascherare la propria posizione retrograda e reazionaria con un progressismo scientista. Rivedere la posizione sui manicomi è un po’ come rivedere quella sulla democrazia. Una intramontabile tendenza dell’ultimo decennio della nostra triste storia. Per carità io penso che tutto sia perfettibile, compresa la democrazia, che secondo me non è abbastanza inclusiva. Ma il discorso che portano avanti questi presunti riformatori è esattamente l’opposto: c’è troppa democrazia, quindi sarebbe il caso di restringerla a certi gruppi. E chi dà il patentino del voto o decide l’abilitazione? Ci sarà una sorta di Green Pass per i votanti? Un Voting pass?

Una riflessione sulla follia

Torniamo ai manicomi, che tanto stiamo in tema. In estrema sintesi, il manicomio nasce come struttura para-carceraria che aveva lo scopo di isolare i “matti” dalla società. Le ragioni erano semplici e di un funzionalismo disarmante: la follia era un fenomeno di cui non solo non si comprendeva l’origine ma, in tutta onestà, nemmeno era interessante comprenderla. Questi soggetti, sofferenti per varie ragioni e prede di una sofferenza che ne dominava i “normali” comportamenti, diventavano scomodi per la società in quanto ne impedivano il sereno proseguimento. Poiché in questo loro essere fastidiosi e ostacolanti erano accomunabili ai criminali inizialmente venivano trattati allo stesso modo. Quando si iniziò a sospettare che le loro motivazioni fossero di ordine clinico, si sostituì semplicemente la struttura carceraria creandone una ad hoc per i folli, ma ancora eravamo lontani dalla  comprensione delle loro ragioni. La medicina a quel tempo era interessata a “curarli” non per sapere cosa avesse scatenato in loro simili atteggiamenti, in quanto era mossa da un mero spirito “riparatore”, dominata totalmente dall’ideale tecnico e catalogante che opponeva il normale all’anormale allo stesso modo in cui in passato si opponeva il puro all’impuro.
Con la nascita della psicoanalisi e dell’antropoanalisi o psichiatria fenomenologica, il “folle” inizia ad essere ascoltato e lentamente inserito in un sistema di pensiero che, seppur ancora “vittima” del sistema categoriale, metteva in seria discussione il concetto di malattia, comprendendo dunque che esistono delle ragioni della follia e che queste sono in larga parte sociali. L’antropologia poi ricondurrà definitivamente queste ragioni ad un macro-ordine culturale, relativizzando il discorso medico-clinico al punto che risulterà inaccettabile per alcuni continuare a tollerare la reclusione dei “folli” nei manicomi. Dunque è sull’onda di questa vera rivoluzione che Franco Basaglia, ispirato dalla fenomenologia, inizierà una campagna informativa e di sensibilizzazione che culminerà nella famosa legge 180 del 1978. L’Italia diventa il primo paese al mondo a chiudere i manicomi. Ovviamente, ogni volta che In Italia potremmo avere qualcosa di cui vantarci, essendo poco abituati, dobbiamo immediatamente correggere il tiro. Già il 18 Maggio 2018 ho notato qualche avvisaglia in un articolo di comicità involontaria intitolato “I danni di Basaglia, lo psico-comunista”, un coacervo grondante di luoghi comuni a firma di Marcello Veneziani che riassume quella che oggi è un po’ la posizione dei restaurazionisti  del manicomio. Per carità, non penso che chiudere i manicomi fosse sufficiente a risolvere il problema della comprensione di chi soffre di disagi psichici, ma infatti lo stesso Basaglia aveva previsto strutture inclusive e l’impiego di nuove forze che avrebbero coinvolto psicologi, psichiatri, antropologi e sociologi della salute al fine non solo di reintegrare il “folle” nella società, ma anche di mandare dei moniti al mondo moderno che inevitabilmente porta sempre più persone a cadere in questo baratro. Ma visto che la società non ne vuole sapere di cambiare perché viviamo nel “migliore dei mondi possibili” allora il folle rimane null’altro che quell’elemento di disturbo che dev’essere rimosso e confinato. Che poi non si sia fatto abbastanza per sopperire alla chiusura dei manicomi è una colpa da ricercare nelle volontà politiche che si sono disinteressate della questione, ma tale trascuratezza non può giustificare un ritorno alla struttura manicomiale come invece oggi si auspica.
Paradossalmente, ciò che più lamentano i fautori del restaurazionismo manicomiale, è il fatto che il folle, rimandato “a casa” e non più confinato in manicomio (dove non rompe le scatole) incomincia a gravare sulla famiglia che viene costretta a farsi carico di un soggetto che obbiettivamente pesa notevolmente in termini economici ma anche di stress personale. Naturalmente è ingiusto che delle persone normali siano costrette a farsi carico di chi è in quelle condizioni, ma ciò giustifica davvero la reintroduzione dei manicomi? Ecco dunque che leggo post ovunque (di gente che ovviamente non nomino per privacy) che rimandano ai “danni di Basaglia” che avrebbe “scaricato” il peso della follia dei malati sulle spalle della famiglia, e allora partono i ragionamenti pericolosi, “è tempo di ripensare la figura del manicomio” oppure, ancor peggio, si reintroduce lentamente la vecchia ideologia Griesingeriana, e così rispuntano come funghi articoli che individuerebbero le presunte cause della depressione in un “deficit neuronale(leggasi: se sei depresso non è colpa della società ma è colpa tua che sei malato e non puoi farci niente, ergo il migliore dei mondi possibili può continuare ad essere tale senza mettersi in discussione), o nella schizofrenia la cara vecchia alterazione funzionale e strutturale dell’emisfero sinistro. Intramontabile, ritorna sempre.
Dobbiamo seriamente iniziare a preoccuparci e a chiederci a chi convenga confinare qualunque forma manifestativa di un disagio interiore ad una “disfunzione” biologica, il che la priverebbe paradossalmente della stessa soggettività del malato per confinarla ad una dimensione medicalizzante, incontrollabile dal malato ma convenientemente controllabile dai clinici che così, come funzionari di un apparato culturale sempre più tecnico e repressivo, saranno altresì giustificati a rinchiudere nuovamente i malati, e con essi anche ogni altro soggetto manifestante forma di dissenso (grazia alla conveniente analogia che tornerà di moda tra dissenso e follia per cui non si può che essere pazzi se non si è d’accordo con ogni aspetto della società moderna) nei tanto amati manicomi.

Federico Divino
Antropologo della Salute

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Autore dell'articolo: GG

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