La libertà di star male : riflessioni di un antropologo

La libertà di star male

 

“La cesura fondamentale che divide l’ambito biopolitico è quello fra popolo e popolazione, che consiste nel far emergere dal senso stesso del popolo una popolazione, nel trasformare, cioè, un corpo essenzialmente politico in un corpo essenzialmente biologico, di cui si tratta di controllare e di regolare natalità e mortalità, salute e malattia. Con la nascita del biopotere, ogni popolo si raddoppia in popolazione, ogni popolo democratico è, insieme, un popolo demografico.”

(Agamben: “Homo Sacer”, Quodlibet, 2018, p. 820)

 

La malattia non è un fatto tecnico, eppure oggi il malato rischia di essere spossessato del suo diritto fondamentale, ossia quello di star male.

Si ironizza molto sull’ignoranza del popolo di fronte alla sapienza del medico. Ho recentemente visto un video di satira prodotto da un gruppo di youtubers molto noti. Non ci interessa qui polemizzare sulla produzione artistica, ma il fatto che una certa tematica sia trattata al preciso scopo di derisione è un dato sociale non irrilevante. Nel video si ironizza sul classico malato che va dal medico con la diagnosi fatta su internet, e che con supponenza mette in questione il parere del medico il quale alla fine perde la pazienza e sbatte in faccia al paziente il suo decennio di studi per contrastare la sua ignoranza.
In fondo che cos’è il paziente di fronte alla grandezza del medico? Il medico è “esperto”, e il paziente è ignorante. 

Specie in questo periodo storico è importante fermarci a riflettere su questo problema della crescente divinizzazione della figura del medico. Sarebbe opportuno recuperare “Nascita della clinica” di Foucault per renderci conto delle ragioni storiche di questa conformazione. Il medico è un “tecnico”, e come ogni tecnico ha delle esigenze pratiche che sono il risultato di una radicalizzazione del pensiero. Il medico ha bisogno di ragionare per paradigmi dogmatici, e questa scelta si rivela saggia in molte situazioni. Il pensiero clinico ha bisogno di certezze, e ciò permette di protocollare delle azioni di intervento immediato, è un ragionamento che tende a massimizzare i risultati riducendo gli sforzi diagnostici (presenza del sintomo = presenza di una malattia = somministrazione di una specifica cura). È un ragionamento mutuato dalle scienze dure, dove la sua valenza è certamente maggiore, perché il presentarsi di un dato fenomeno è sempre indice di certe premesse riconoscibili ad ogni “sintomo”, ma il sintomo che studia il medico è diverso da quello del fisico e del chimico, perché c’è di mezzo un organismo complesso quale è l’essere umano. Per questo il ragionamento clinico non è infallibile, ma pretende di esserlo, portando alla paradossale condizione di elevare il medico al di sopra sul diritto del paziente di decretare da sé il proprio stato di salute. Non c’è nessuno di più titolato del malato a dire “sono malato”, ma il medico è in grado di sfondare questo limite, di anteporsi alla percezione del malato stesso. E sebbene il paziente non abbia le conoscenze per definire i termini tecnici della sua malattia, il medico non deve dimenticarsi che la definizione tecnica della malattia è solo una mera convenzione.

Nel tentativo di definire l’indefinibile stato di malessere, il pensiero tecnico interviene sulla medicina ed impone di catalogare sintomi e segni, e pur non potendo dire nulla sul singolo stato di malessere, questa distinzione interviene su tutti i pazienti, decretando se sono realmente malati o no. Non dunque solo il sintomo, ma anche la presenza di determinati cofattori spossessa il malato della sua autodeterminazione.

Prendiamo il caso del covid-19. Il grande dibattito della cosiddetta seconda ondata è proprio la figura degli asintomatici. Pur continuando a ripetere ossessivamente il mantra de “gli asintomatici non sono malati” la loro percezione a livello sociale è che de facto siano anche più pericolosi. L’asintomatico è “un malato che non sa di esserlo”, e pur non avendo la sofferenza della malattia, gli dev’essere proibito ogni diritto di scambio umano, per evitare il diffondersi del virus. E per quanto io continui a chiedermi se, arrivati a questo punto di diffusione ed appurato che la mortalità di questa nuova malattia non è distruttiva quanto la peste, sia ancora giusto imporre restrizioni sociali così pesanti, non voglio intervenire sulle questioni “tecniche” dei medici.

Non condivido, non mi fido, ma rispetto le regole, anche quando le reputo controproducenti. Il problema è di ordine sociale. La nostra società soffriva già prima del virus di una grave deumanizzazione. L’affetto si era ridotto a formalità rituali, la sincerità e la profondità dei legami è sempre stata un’utopia, e solo poche persone potevano vantare un vero rapporto umano, di amicizia o di amore, mentre il resto del mondo era fondato su rapporti superficiali spacciati per sinceri, ma dove le carezze non hanno alcun valore. Eppure il mondo continuava a reggersi su quella minoranza tenace che continuava a dare un valore diverso al contatto con l’altro. All’inizio della pandemia ricordo Agamben che, intervistato alla radio, urlava una frase potente e inascoltata, come il pazzo che grida alla luna nessuno gli ha prestato la dovuta attenzione: “che società si può fondare sul distanziamento sociale?”, è questa la domanda delle domande. E queste condizioni non saranno provvisorie, né reversibili. Quella che fino ad ora era diffidenza oggi si è trasformata in paura, ma senza il contatto con l’altro, l’umanità è spenta. Se togliamo la possibilità di scambi umani, di conoscere il nuovo, di accogliere chi è altro da noi, per capire se possiamo accettarlo, abbracciarlo ed amarlo, allora ci condanniamo alla peggiore delle malattie: la solitudine. E il legame non si forma certo nelle discoteche o nei locali. Proibite pure la movida, cari governanti, non è quello il divieto che mi spaventa. Ciò che realmente mi ha fatto raggelare il sangue non è stata la chiusura dei grandi luoghi di aggregazione, ma il coprifuoco, le restrizioni orarie sulla libertà di movimento, e il “consiglio” (capisci a me) di evitare tutti i rapporti non necessari, addirittura il governo sconsiglia di ricevere a casa chiunque non sia un convivente. Tutti sono preoccupati per l’economia, io invece sono preoccupato per i rapporti sociali. Senza umanità non c’è neanche economia. La depressione era il malanno del secolo già prima della pandemia, ma adesso osserveremo le conseguenze devastanti di una reclusione forzata, perché se prima era l’ignoranza a farci dire “non mi fido dell’amore”, oggi vige una paura istituzionalizzata: devi temere l’altro, perché anche se non lo sa potrebbe essere contagioso, e quindi il nuovo non può entrare nella tua vita, e d’ora in avanti guarderai con diffidenza l’altro, perché potrebbe “fregarti”. Il tutto perché abbiamo perso la libertà di star male e di ammalarci. Oggi anche un banale raffreddore viene guardato con sospetto, abbiamo perso il permesso di scontare una malattia in casa senza essere violati dai tamponi, giunti ad accertarci che non siamo marchiati dal coronavirus. Sono sempre di più i luoghi di lavoro in cui viene imposto un tampone regolare ai dipendenti. Bisogna schedare tutti, controllare ogni individuo, anche nei suoi contatti. Pensavamo che sarebbero stati i social network a porre fine al diritto di privacy, e invece è stato un virus.

Queste sono solo riflessioni su fatti reali, e sebbene non sia il mio compito avanzare delle criticità sull’efficacia del tampone, sui possibili effetti collaterali che invece potrebbe provocarne un uso prolungato (ad esempio danneggiando le mucose del paziente), oppure sull’efficacia del lockdown dal punto di vista epidemiologico, mi permetto l’infame audacia di sollevare una critica sulle conseguenze sociali che tutto ciò comporta. È impossibile che non ci fosse un’altra via per risolvere la questione, è a dir poco ridicolo dover sentire di avere rapporti sessuali con la mascherina, oggetto ormai elevato a feticcio religioso onnipotente, come è ridicolo che la pletora belante si adegui o addirittura promuova certe scelte scellerate, inveendo contro i critici al grido di “negazionismo”. O forse sì, sono un negazionista, perché pur essendo convinto delle evidenze sulla pandemia, nego comunque qualcosa: la buona fede dei nostri governanti. Vogliono davvero arginarla, o piuttosto aggravarla? 

 

Federico Divino

Antropologo della salute mentale e saggista. Ho conseguito la magistrale magna cum laude in “Antropologia Culturale, Etnologia, Etnolinguistica” con una tesi in Etnopsichiatria.

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Autore dell'articolo: GG

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