Curare con la parola? Si può fare! Altro che effetto placebo

Ho letto poco fa questa interessante intervista al professor Benedetti, neuroscienziato, da parte di Ruggiero Corcella, del Corriere.

Si accendono i riflettori sull’effetto placebo e sulla Medicina Narrativa, sarebbe il caso di studiare per bene cosa voglia davvero dire effetto placebo. Secondo voi perché molti pazienti migliorano con il placebo? Spesso nei test clinici capita che la molecola analizzata “non sia differente dal placebo” questo avviene perchè la molecola non funziona, o perchè il corpo umano ha una innata capacità di auto guarigione?
Bisogna affrontare questa tematica con occhio critico, senza scadere nei discorsi da bar “ah l’omeopatia acqua fresca effetto placebo” perchè ricordiamoci 1 che esiste anche l’effetto nocebo 2 chi ci dice che l’efficacia del farmaco in realtà non sia data dall’interazione e dalla capacità del medico di essere umano?

Professor Benedetti, che effetto hanno le parole del medico sul paziente dal punto di vista scientifico?
«Dal punto di vista neuroscientifico oggi le parole sono passate da simboli astratti a vere e proprie potenti frecce che colpiscono gli stessi bersagli biochimici dei farmaci. Ed è proprio questo il concetto che oggi sta emergendo: parole e farmaci usano gli stessi meccanismi d’azione».

È possibile misurare questo effetto e come?
«L’effetto può essere misurato dal punto di vista neuroscientifico attraverso tecniche sofisticate, per esempio le tecniche di bioimmagine. Queste ci permettono di vedere cosa succede nel cervello del paziente quando interagisce con il proprio medico o, più in generale, con il proprio terapeuta».

Esiste un effetto placebo anche nelle parole?
«Certamente sì. Anzi, le parole sono il mezzo principale per indurre aspettative positive, fiducia e speranza».

Che effetto potrà avere l’interazione sempre più stretta fra uomo e macchina (a maggior ragione con l’avanzare dell’Intelligenza Artificiale) sul rapporto medico-paziente?
«Penso che il rapporto umano fra colui che cura e colui che soffre sarà sostituito difficilmente dalle macchine. Sebbene le macchine e l’intelligenza artificiale giocheranno un ruolo sempre più importante, dietro tutto ciò c’è l’uomo, con il suo calore, la sua empatia, la sua compassione».

La Carta di Firenze (il documento, redatto da alcuni dei principali esperti del settore medico, sanitario e dell’informazione, presentato il 14 aprile 2005, che proponeva una serie di regole che devono stare alla base di un nuovo rapporto, non paternalistico, tra medico e paziente) afferma che «il tempo dedicato all’informazione, alla comunicazione e alla relazione è tempo di cura». Sembra un paradosso , ma oggi i medici soprattutto sembrano aver perso la capacità di parlare ai pazienti e anche di ascoltare: che cosa si può e si deve fare?
«È necessario lanciare questo messaggio. Cioè che le parole, i comportamenti, le attitudini del personale sanitario attivano gli stessi meccanismi dei farmaci. E tutto ciò le neuroscienze lo possono fare molto bene, poiché fanno vedere cosa succede nel cervello di chi soffre mentre interagisce col proprio medico, mentre gli parla, mentre spera, mentre ha fiducia in lui. In tal modo i medici possono vedere direttamente nel cervello dei propri pazienti, cioè come qualsiasi parola e atteggiamento abbiano un potente impatto sui circuiti nervosi del paziente. Io credo che questo possa stimolare ulteriormente il comportamento empatico e compassionevole di tutto il personale sanitario».

Dal punto di vista accademico, è auspicabile pensare di introdurre la materia comunicazione anche nei corsi di laurea?
«C’è già, in tutto il mondo, inclusa l’Italia».

Negli ultimi cinque anni, la medicina narrativa si è conquistata un posto di rispetto anche fra gli addetti ai lavori: a quali sviluppi potrà portare?
«Il racconto del paziente, le sue emozioni e la sua prospettiva della malattia devono correre in parallelo con le neuroscienze e la medicina molecolare. Solo attraverso l’interazione fra chi studia le molecole, chi studia la mente e chi ascolta le narrazioni dei pazienti si potrà arrivare a una migliore comprensione della sofferenza e dell’esistenza dell’uomo».

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Autore dell'articolo: GG

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