La realtà è un illusione : Dr. Hoffman

LA CAUSA CONTRO LA REALTÀ
di Amanda Gefter

Traduzione di Stefano Re

Nel corso delle nostre vite quotidiane tendiamo a considerare che le nostre percezioni – la vista, l’udito, il tatto, il gusto – forniscano un ritratto accurato del mondo reale. Ovviamente, quando ci fermiamo a riflettere o quando veniamo ingannati da qualche forma illusione ci accorgiamo che quel che percepiamo non è direttamente il mondo bensì l’interpretazione che ne dà il nostro cervello – una sorta di simulazione interna della realtà esteriore. Nondimeno, riteniamo la nostra simulazione ragionevolmente affidabile. Se non lo fosse, l’evoluzione non ci avrebbe forse già spazzati via? La realtà assoluta può anche essere perennemente fuori della nostra portata, ma di certo i nostri sensi ci forniscono un buon quadro di che cosa si tratti davvero.

Proprio no, afferma Donald D. Hoffman, professore di scienze cognitive presso la UC Irvine (Università della California Irivine). Hoffman ha speso gli ultimi trent’anni a studiare le percezioni, l’intelligenza artificiale, la teoria dei giochi evolutivi ed il cervello, e la sua conclusione è piuttosto netta: il mondo che ci presentano le nostre percezioni non ha nulla di reale. Inoltre, aggiunge, dobbiamo ringraziare proprio l’evoluzione per questa grandiosa illusione, perché ha massimizzato le nostre capacità di sopravvivenza proprio nascondendoci la “verità”.

Porsi domande sulla natura della realtà e sganciando l’osservatore dall’oggetto osservato è uno sforzo a cavallo sui confini tra neuroscienze e fisica di base. Da un lato troverai dei ricercatori che si arrovellano cercando di capire come un grumo di materia grigia di tre chili che obbedisce solo alle ordinarie leggi della fisica possa produrre una esperienza consapevole in prima persona. Questo è il cosiddetto “problema grezzo”. Dall’altro lato abbiamo fisici quantistici, che si scervellano sul fatto che i sistemi quantici non sembrano essere oggetti definiti nello spazio finché non li si osserva. Esperimento dopo esperimento è stato dimostrato – contro ogni senso comune – che ritenere che le particelle abbiano una loro sostanza oggettiva ed una esistenza indipendente da chi le osserva conduce a risposte sbagliate. La lezione fondamentale della fisica quantistica è chiara: non ci sono oggetti che esistano in uno stato preesistente. Come lo spiega il fisico John Wheeler: “per quanto risulti funzionale in circostanze ordinarie affermare che il mondo esista là fuori indipendentemente da noi, questo punto di vista non può più venire sostenuto.”

Dunque, mentre i neuroscienziati lottano per comprendere come possa funzionare una realtà in prima persona i fisici quantistici devono misurarsi col mistero di come possa esserci qualsiasi altra cosa tranne una realtà in prima persona. In breve, tutte le strade riportano all’osservatore. Ed è qui che troviamo Hoffman, a cavallo delle diverse discipline, che azzarda un modello matematico dell’osservatore, cercando di raggiungere la realtà dietro l’illusione. Quanta Magazine lo ha incontrato per capirci di più.

Gefter: Le persone usano spesso la teoria Darwinista dell’evoluzione a sostengo dell’accuratezza delle nostre percezioni nel descrivere la realtà. Dicono: “ovviamente dobbiamo avere un quadro accurato della realtà altrimenti ci saremo estinti molto tempo fa. Se penso di stare guardando una palma quel che è una tigre, sono nei guai.”

Hoffman: Giusto. Il classico argomento che tra i nostri antenati quelli che avevano percezioni più accurate debbono avere avuto vantaggi competitivi e dunque aver passato i loro geni con maggiore frequenza di coloro che avevano percezioni meno accurate. Così, dopo migliaia di generazioni, ci sentiamo sicuri di essere gli eredi di coloro che avevano percezioni più accurate e affidabili della realtà. Suona plausibile, ma ritengo sia fondamentalmente falso. Questo ragionamento fraintende un elemento fondamentale riguardo all’evoluzione, e cioè che riguarda l’essere idonei: possedere funzioni matematiche in grado di produrre una strategia che assicuri sopravvivenza e riproduzione. Il matematico fisico Chetan Prakash ha provato un teorema che ho ideato io: stando all’evoluzione per selezione naturale, un organismo in grado di vedere tutta la realtà com’è non sarà mai più idoneo di un organismo di eguale complessità che non vede nulla della realtà tranne ciò che gli occorra per essere idoneo. Mai.

Gefter: Hai fatto simulazioni al computer per dimostrarlo. Puoi farci un esempio.

Hoffman: Diciamo che abbiamo una risorsa reale, come l’acqua, e tu puoi misurare quanta sia in un ordine oggettivo: molto poca, una quantità media, un sacco di acqua. Ora supponiamo che la tua funzione di idoneità sia lineare, e dunque poca acqua offre poca idoneità a sopravvivere, media acqua una idoneità media, molta acqua una grande idoneità. In questo caso, l’organismo che può vedere la realtà esattamente come è sarà in vantaggio, ma soltanto perché la funzione di idoneità appare allineata con la struttura presente nella realtà. Statisticamente, nel mondo reale, questo non accade mai. La norma è invece una curva a campana, ad esempio: poca acqua, muori di sete, troppa acqua, affoghi. E soltanto da qualche parte nel mezzo c’è la quantità giusta per sopravvivere. Dunque la funzione di idoneità non corrisponde alla struttura del mondo reale. E questo basta a spedire la verità verso l’estinzione. Facciamo un esempio: un organismo che evolve in modo da vedere quantità piccole o grandi di una risorsa, diciamo, come macchie rosse e indesiderabili, mentre vede quantità intermedie di risorse come macchie verdi e desiderabili. Ecco che le sue percezioni saranno idonee ad assicurargli la sopravvivenza, ma non a descrivere la verità. Non vedrà differenza tra poca o tanta, vedrà solo del rosso, anche se questa distinzione esiste nella realtà.

Gefter: E come può essere utile alla sopravvivenza di un organismo vedere una falsa realtà?

Hoffman: C’è una metafora a noi accessibile solo da una quarantina d’anni, ed è l’interfaccia del desktop. Diciamo che vedete una icona rettangolare di colore blu nell’angolo in basso a destra del vostro monitor: questo significa forse che quel file è di colore blu, è rettangolare e si trova nell’angolo in basso a destra del vostro computer? Naturalmente no. Ma queste sono le sole cose che possiamo affermare a proposito di qualsiasi icona sul desktop: il colore, la forma e la posizione. Queste sono le sole categorie a noi accessibili, eppure nessuna di esse afferma qualcosa di vero riguardo al file o qualsiasi altra cosa nel computer. Non possono proprio essere vere. E questo è interessante: non potreste dare una descrizione veritiera di cosa vi sia all’interno del computer basandovi su quello che vedete sul desktop. Nondimeno, il desktop è necessario. L’icona blu guida il mio comportamento e mi nasconde una realtà più complessa di cui non mi è necessario sapere nulla. Questa è l’idea di base: l’evoluzione ci ha forniti di percezioni adeguate a farci sopravvivere. Esse definiscono la nostra capacità di adattamento. Ma una parte del loro compito è nasconderci tutte le cose che non ci occorre sapere. E questa parte è la maggior parte della realtà, qualsiasi cosa la realtà poi in effetti sia. Se dovessimo passare tutto il tempo a cercare di comprenderla, nel frattempo la tigre ci avrebbe mangiato.

Gefter: Quindi tutto ciò che osserviamo è una grande illusione?

Hoffman: Ci siamo evoluti ad avere percezioni che ci mantengano vivi, quindi dobbiamo prenderle sul serio. Se vedo qualcosa che penso essere un serpente, non lo raccoglierò. Se vedo un treno in arrivo, non ci camminerò davanti. Abbiamo evoluto questi simboli per restare vivi, per cui occorre prenderli sul serio. Ma è un errore logico pensare che, se devo prenderli sul serio, devo anche prenderli alla lettera.

Gefter: Se i serpenti non sono serpenti e i treni non sono treni, che cosa sono?

Hoffman: Serpenti e treni, come ogni particella fisica, non hanno una sostanza oggettiva e indipendente da chi li osserva. Il serpente che vedo è una descrizione creata dal mio sistema sensoriale per darmi informazioni sulla idoneità di un dato comportamento. L’evoluzione ha disegnato soluzioni accettabili, non ottimali. Un serpente è una soluzione accettabile per dirmi come agire in una data situazione. I miei serpenti e i miei treni sono altrettante mie rappresentazioni mentali, i tuoi serpenti e i tuoi treni sono tue rappresentazioni mentali.
Gefter: Come hai approcciato queste possibilità?

Hoffman: Da adolescente ero molto interessato alla domanda: siamo delle macchine? Le mie letture scientifiche suggerivano di sì. Mio padre però era un ministro di culto e in chiesa dicevano che non lo eravamo. Quindi ho concluso che avrei dovuto farmi una opinione tutta mia. È una faccenda piuttosto importante a livello personale, se sono una macchina, mi piacerebbe proprio saperlo. E se non lo sono, vorrei sapere, che cos’ho di speciale più di una macchina? E questo mi portò negli anni ’80 al laboratorio sull’intelligenza artificiale presso il MIT a lavorare sulle forme percettive delle macchine. L’ambito della ricerca sulla vista era in piena espansione nello sviluppo di modelli matematici per ottimizzare specifiche abilità visive. Notai che sembravano condividere una struttura matematica comune, così pensai fosse possibile scrivere una struttura formale accomunasse tutti i possibili modelli di osservazione. Ero ispirato in parte da Alan Turing. Quando ha inventato la Turing Machine stava cercando di ottenere una nozione di computistica, e invece di complicarla troppo decise di trovare il più semplice modello descrittivo matematico che potesse funzionare. Quel semplice modello formale divenne il fondamento della scienze delle computistica. Quindi mi domandai, potrei trovare qualcosa di altrettanto semplice e fondamentale per la scienza dell’osservazione?

Gefter: Un modello matematico della coscienza.

Hoffman: Precisamente. La mia intuizione era: abbiamo esperienze consce. Percepisco dolore, gusti, odori, tutte le mie esperienze sensoriali, emozioni, stati d’animo e così via. Quindi voglio provare a dire: una parte di questa struttura di coscienza costituisce un modello di base di ogni possibile esperienza. Quando sto vivendo una esperienza, in base a tale esperienza posso desiderare di cambiare ciò che sto facendo. Dunque debbo avere un archivio di azioni possibili da intraprendere e una strategia decisionale che in base a ciò che sperimento mi permetta di modificare le mie azioni. Questa è l’idea alla base di tutto. Possiedo uno spazio X di esperienze, uno spazio G di azioni e un algoritmo D che mi permette di scegliere azioni in base alle esperienze. Poi ho aggiunto una W per rappresentare il mondo, che è uno spazio probabilistico. In qualche modo il mondo influenza le mie percezioni, quindi c’è una mappa percettiva che chiamo P costruita dal mondo delle mie esperienze, e quando agisco io modifico il mondo, quindi c’è una mappa A costituita dalle azioni verso il mondo. Questa è l’intera struttura. Sei elementi. Ho affermato: questa è la struttura della coscienza. E l’ho esposta perché chi vuole possa farci i conti.

Gefter: Ma se c’è un W stai affermando che esiste effettivamente un mondo esterno?

Hoffman: Questo è un punto molto suggestivo. Potrei togliere la W dal modello e metterci un agente conscio al suo posto, ottenendo un circuito di agenti coscienti. Infatti, puoi avere intere reti di complessità arbitraria. E questo è il mondo.

Gefter: Il mondo è solo un altro agente conscio?

Hoffman: Lo definisco “realismo conscio”. La realtà oggettiva come agenti consci, solo punti di vista. Considera che posso prendere due agenti consci e lasciarli interagire, e la struttura matematica di questa interazione continuerà a soddisfare la definizione di agente conscio. Questa matematica ci dice qualcosa. Posso prendere due menti e loro genereranno una nuova, singola mente unificata. Ecco un esempio concreto: abbiamo due emisferi nel nostro cervello. Ma se facciamo una operazione chirurgica separandole, una completa transectomia del corpo calloso, otteniamo evidenze palesi di due coscienze separate. Prima della separazione avevamo un solo, unificato agente conscio. Dunque non è affatto impossibile che esista un solo agente conscio. Così come nel caso ci siano due agenti consci e te ne accorgi soltanto quando vengono separati. Io non mi aspettavo questo, la matematica mi ha condotto a riconoscerlo. Suggerisce che io possa prendere osservatori separati, metterli insieme e ottenere un uovo osservatore, e posso procedere a farlo all’infinito. Sono agenti consci lungo tutta la strada.

Gefter: Se abbiamo sempre e soltanto agenti consci, ciascuno con punti di vista individuali, che succede alla scienza? La scienza ha sempre azzardato una descrizione del mondo in terza persona.

Hoffman: L’idea che la scienza misuri degli oggetti che esistono per i fatti loro; l’idea che l’oggettività risulti dal fatto che sia io che te possiamo misurare lo stesso oggetto nella stessa situazione ottenendo lo stesso risultato: ebbene, oggi la meccanica quantistica dimostra chiaramente che questa specifica idea debba venire abbandonata. I fisici ci dicono che non esistono oggetti fisici pubblici. Dunque, che sta succedendo? Ecco come la vedo io: posso parlare del mio mal di testa e ritenere di stare comunicando in modo efficace con te perché anche tu hai avuto mal di testa. La stessa cosa è vera a proposito di mele, della luna, del sole e dell’universo. Esattamente come hai il tuo mal di testa, hai la tua luna. Assumo anche che sia molto simile alla mia, e questa assunzione potrebbe essere falsa, ma è alla base della mia possibilità di comunicare, e questo è il massimo che possiamo fare in materia di oggetti fisici condivisi e scienza oggettiva.

Gefter: Non molte persone nell’ambito delle neuroscienze o della filosofia o dello studio della mente sembrano pensare molto alla fisica di base. Pensi che sia stato un ostacolo per coloro che tentano di comprendere la consapevolezza?

Hoffman: Penso lo sia stato. Non solo stanno ignorando i progressi in fisica di base, sono anche spesso espliciti nell’affermarlo. Dicono apertamente che la fisica quantistica non sia rilevante riguardo alle funzioni del cervello casualmente coinvolto nei processi di consapevolezza. Sono certi che debbano esserci classiche funzioni di attività neurale che esistano in modo indipendente da qualsiasi osservatore, spiking rates, connection strengths at synapses (NdT non ho trovato una traduzione medica specifica, sono evidentemente funzioni cerebrali), forse persino proprietà dinamiche. Sono tutte nozioni tradizionali della fisica Newtoniana, dove il tempo è un valore assoluto e gli oggetti esistono in termini assoluti. E poi si stupiscono di non fare alcun progresso. Si negano gli incredibili spunti offerti dai progressi della fisica. Questi risultati sono lì per essere usati, eppure continuano a dire “restiamo fermi a newton, grazie, restiamo 300 anni indietro nella nostra fisica.”

Gefter: Io sospetto che reagiscano a modelli come quelli di Roger Penrose e Stuart Hameroff, dove si considera il cervello ancora da un punto di vista fisico, ancora ancorato nello spazio, anche ipoteticamente utilizza una qualche capacità quantica. Quel che stai affermando tu invece è “guardate, la meccanica quantistica ci dice che dobbiamo mettere in discussione qualsiasi nozione di oggetti fisici ancorati nello spazio”

Hoffman: È esattamente quello che penso. I neuroscienziati affermano “non ci serve evocare processi quantici, non ci servono funzioni ad onda quantica che collassano nei neuroni, possiamo usare la fisica classica per descrivere i processi cerebrali.” Io sottolineo la più grande lezione della fisica quantistica: neuroni, cervelli, spazio, tutti questi sono solo simboli che utilizziamo, non sono reali. Non è che ci sia un cervello classico che attua una qualche magia quantica: è che non c’è alcun cervello! La meccanica quantistica afferma che gli oggetti classici, inclusi i cervelli, semplicemente non esistono. Per cui, le mie affermazioni sulla natura della realtà sono assai più radicali e non riguardano una qualche attività quantica esercitata dal cervello. Anche Penrose non è andato fino in fondo. La maggior parte di noi, del resto, nasce realista. Siamo nati credendo negli oggetti fisici, è un retaggio molto, molto difficile da superare.

Gefter: Tornando alla tua domanda da adolescente: siamo delle macchine?

Hoffman: La teoria formale degli agenti consci che ho sviluppato è universale a livello di computazione – in questo senso, è una teoria di tipo meccanico. E posso trarne reti neurali e di scienza cognitiva proprio perché è una teoria computazionalmente universale. Non di meno, non ritengo ad oggi che siamo delle macchine, in parte perché distinguo tra una rappresentazione matematica e ciò che viene rappresentato. Come realista cosciente, postulo esperienze coscienti come primitive ontologiche, gli ingredienti di base di tutto il mondo. Affermo che le esperienze sono la reale moneta del reame. Le esperienze quotidiane, il mio reale mal di testa, il mio reale gusto del cioccolato, questa è la natura fondamentale della realtà.

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Autore dell'articolo: GG

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