I problemi della proteina SPIKE: i benefici superano davvero i rischi?

I problemi della proteina SPIKE

Una analisi equilibrata del professore Marco Cosentino

Usciamo dalla visione apodittica per la quale “i benefici superano i rischi”

Nel Dicembre 2020, avevo parlato qui di questa nuova categoria di farmaci, raccontando quali potrebbero essere i problemi legati alla somministrazione di questo prodotto sperimentale, di cui chissà quando e se vedremo pubblicati dei dati definitivi. Ricordando che l’oste difficilmente dirà che il suo vino non è buono.
Una delle problematiche è legata all’esistenza della proteina SPIKE, e di quello che potrebbe comportare.
Vi lascio alla analisi del professore di Farmacologia all’Insubria, Marco Cosentino, che spiega con calma come dovremmo ripensare il concetto di vaccinazione forzata per tutti, ad ogni costo.

Trombi e SPIKE

Una delle più tipiche e pericolose caratteristiche del covid è la trombosi disseminata, causa primaria del precipitare delle condizioni cliniche. Questo lo sappiamo dalla primavera scorsa, grazie allo straordinario lavoro di alcuni anatomopatologi italiani dell’Ospedale di Bergamo, che ci ha consentito di identificare il razionale per l’uso terapeutico di fondamentali farmaci quali l’antinfiammatorio e antiaggregante piastrinico aspirina e l’anticoagulante eparina, tra gli altri.
Ora, alcuni ricercatori della Northeastern University di Boston ipotizzano che possa essere proprio la proteina virale S a innescare questi fenomeni, legando l’ormai noto recettore ACE2 sull’endotelio dei vasi e scatenando la cascata di eventi che porta alla formazione dei trombi.
Tutto molto interessante e anche potenzialmente molto utile. Antonio De Sandoli(che ringrazio per avermi segnalato il lavoro della Northeastern) osserva giustamente che un dato del genere potrebbe dare sostanza all’ipotesi che nel covid siano di beneficio alcuni principi attivi di origine vegetale quali la quercetina (che blocca ACE2) e l’esperidina (che blocca invece la proteina S).

La differenza con i vaccini tradizionali

Fino a prima di questa crisi senza precedenti, tutti avremmo concordato sulla definizione di vaccino come metodo di immunizzazione attraverso l’inserimento nel corpo umano di un agente patogeno attenuato o di una sua subunità (da Wikipedia). L’inserimento può avvenire in vari modi (sotto la cute, in un muscolo, per bocca), ma il materiale inserito è in quantitò minima e la sua diffusione nel resto dell’organismo è nulla o comunque irrilevante. Il meccanismo d’azione dei vaccini è sostanzialmente il medesimo, con sottili variazioni di poco conto: il materiale introdotto è riconosciuto come estraneo dal sistema immunitario che “impara” in tal modo ad eliminarlo in maniera efficiente. Questi sono i motivi principali per cui tradizionalmente di vaccini si sono sempre occupati immunologi, infettivologi, microbiologi e virologi, e quasi mai farmacologi, tanto meno medici farmacologi (rectius: farmacologi clinici).
Ora, sfugge invece ai più, e tra questi credo anche a immunologi, infettivologi, microbiologi e virologi anche competenti, che gli attuali prodotti sono invece dei farmaci a tutti gli effetti, ovvero sono prodotti che contengono un principio attivo (RNA per Pfizer e Moderna, DNA per AZ e J&J e Sputnik V), con degli eccipienti (lipidi in un caso, dei vettori virali nell’altro caso), che dopo la somministrazione – esattamente come qualsiasi altri farmaco – hanno una fase di assorbimento che li porta nella circolazione sistemica, tramite questa si distribuiscono nell’organismo, localizzandosi in tessuti e organi specifici, e dopo un certo tempo vengono eliminati (gli RNA, i DNA forse no).
I “principi attivi” vengono a un certo punto liberati in determinati tessuti e organi dove agiscono, facendo in modo che le cellule di quei tessuti e organi inizino a produrre la proteina virale che sarà poi riconosciuta dal sistema immunitario.
Ora, così descritto il processo pare del tutto chiaro, non fosse per il dettaglio che nessuno lo ha mai davvero studiato. O almeno non esistono studi accessibili a riguardo, con l’unica eccezione dello studio riportato in figura che illustra nel topo il generico destino di un RNA, da cui si capisce che questo dipende da come è somministrato, che finisce in alcuni organi tra cui soprattutto fegato e polmone, che per un certo tempo fa produrre la proteina che codifica, in una quantità dipendente dalla dose di RNA ma con notevole variabilità individuale (confrontate i diversi topini nel pannello a sn) e per dei tempi altrettanto variabili anche in relazione alla via di somministrazione. Lo studio riportato qui sotto è l’unico che sia fin qui riuscito a reperire, e riguarda gli RNA, nulla invece sui DNA e vettori virali.
Ecco, c’è da credere che quegli immunologi, infettivologi, microbiologi e virologi anche competenti siano tutti in buona fede. Perchè questi processi li studia e li insegna il farmacologo durante il corso di laurea, ma poi il medico pratico viene abituato a utilizzare i medicinali secondo “bugiardino” a dosi standard secondo le modalità autorizzate, senza più ragionare su quel che accade.
Tuttavia, per i farmaci convenzionali tutto questo processo è studiato in dettaglio, le agenzie regolatorie lo richiedono, i parametri rilevanti sono tutti noti, così i farmacologi ci possono “giocare” eventualmente aggiustando le terapie complesse in pazienti paticolari quando sia necessario.
Per i prodotti covid attuali nulla di tutto questo è noto e nessuna agenzia regolatoria si è apparentemente posta il problema. Così dell’ormai famosa proteina S che viene prodotta nell’organismo a seguito della somministrazione di questi prodotti non sappiamo:
* in quali cellule tessuti e organi viene espressa;
* in che quantità;
* per quanto tempo;
* con quale variabilità interindividuale;
* per la frazione che rimane espressa sulle cellule, queste ultime che destino hanno, una volta espressa;
* per la frazione eventuale che venisse secreta, se questa sarebbe in grado di legarsi ad ACE2 come la proteina virale naturale, e nel caso, dove e con quali conseguenze.
Per mia “deformazione professionale” sarei molto ma molto interessato alla variabilità interindividuale, sicuramente presente e che ipotizzo possa spiegare la diversa efficacia interindividuale così come la diversa tollerabilità e gli specifici effetti avversi. E comunque, in generale, la conoscenza di tutti questi aspetti è la base minima sulla quale si fonda l’approvazione di qualsiasi prodotto medicinale. Infine, mi auguro di aver chiarito il motivo per cui possiamo anche definire questi prodotti dei “vaccini” ma in tal modo stiamo dando un significato nuovo alla parola “vaccino”. Che al farmacologo va anche bene, dato che in futuro sarà sempre più necessaria la conoscenza farmacologica per valutare e gestire questi prodotti.

La questione dell’attività biologica della proteina Spike ha tuttavia rilievo potenziale anche rispetto agli effetti dei prodotti attualmente utilizzati nelle campagne vaccinali in UE e in USA, oltre che in buona parte del resto del mondo, che sono essenzialmente dei farmaci che inducono nell’organismo la produzione di una quantità indeterminata di questa proteina.

A differenza dei convenzionali vaccini, che prevedono la somministrazione diretta di una quantità infinitesima del microrganismo o di un suo frammento, e che come tale viene dunque riconosciuto solo dalle cellule specializzate dell’immunità, innescando quindi la reazione che porta alla formazione della memoria immunologica senza – almeno in linea di principio – influenzare altri aspetti della biologia e del funzionamento di organi e tessuti, gli attuali prodotti basati sulla tecnologia RNA (Moderna, Pfizer) oppure dei vettori adenovirali (AstraZeneca, Gamaleya) hanno effetto in quanto inducono la produzione di proteina virale S da parte delle cellule del nostro organismo. Una produzione che indubbiamente stimola l’immunità, come mostrano tutti gli studi che documentano la comparsa di anticorpi anti proteina S. Ma una produzione che, almeno sempre in linea di principio, porta anche all’immissione in circolo di una quantità indeterminata (probabilmente imprevedibilmente variabile da individuo) della medesima proteina S, i cui effetti una volta liberata nei tessuti possono essere al momento ancora solo oggetto di speculazione.

Questioni ipotetiche: con un po’ di volontà si potrebbero risolvere

Ora, se davvero la proteina S interagendo direttamente con l’endotelio dei vasi innescasse fenomeni coagulativi fino eventualmente alla formazione del trombo, questa sarebbe una plausibile ipotesi anche per cercare di spiegare le trombosi che stanno seguendo – fortunatamente in una piccola frazione di casi – la vaccinazione. L’imprevedibilità della produzione e secrezione della proteina S potrebbe anche spiegare la suscettibilità di persone senza un rischio tromboembolico noto, come pure il tempo intercorso tra somministrazione del prodotto e evento (talora ore, talora giorni).

La questione è ipotetica, ma sarebbe anche in certa misura facilmente studiabile, ad esempio prima di tutto in vitro, in cellule endoteliali isolate (o anche in piastrine) studiando cosa accade nel momento in cui queste vengano esposte alla proteina S. Altrettanto. si potrebbe inoculare la proteina S in animali da laboratorio e studiarne la funzione endoteliale e piastrinica. E così via. Studi alquanto semplici, il cui limite principale è rappresentato dai costi, alquanto alti ad esempio per un istituto di ricerca pubblico, ma indubbiamente del tutto irrisori per chi – producendo vaccini e altri farmaci – redige bilanci a nove zeri e oltre. E che in termini di tempo prenderebbero pochi mesi. Vista l’importanza del tema, varrebbe forse la pena che qualcuno che può li considerasse. Poi, ovviamente, se la proteina S influenzasse davvero estesamente la funzione endoteliale, ad esempio anche in senso pro-antiangiogenico, si aprirebbero ulteriori scenari riguardanti i potenziali effetti a lungo termine. Ma, allo stato attuale delle conoscenze, qui scivoleremmo in una campo di ipotesi a sua volta basato su ipotesi, e sarebbe troppo.
C’è già abbastanza lavoro da fare con gli eventuali effetti a breve termine.

Il punto sulla fisiopatologia della Spike

In questa revisione della letteratura appena pubblicata da European Journal of Internal Medicine dal titolo “SARS-CoV-2 Vaccines: Lights and Shadows”, i colleghi cardiologi e pneumologi del mio Ateneo fanno il punto sulla fisiopatologia della proteina spike e sul suo possibile ruolo nell’indurre alterazioni della funzione endoteliale e dell’aggregabilità piastrinica, potenzialmente correlabili al rischio tromboembolico in corso di covid così come post-vaccino. In altri termini, la produzione di proteina spike indotta dagli attuali vaccini potrebbe in determinati casi indurre una paradossale “replica” del covid e in particolare dei suoi aspetti cardiovascolari.
Personalmente, questa prospettiva mi pare pienamente condivisibile. Credo anzi che gli attuali vaccini a RNA e a DNA dovrebbero essere valutati per quel che sono, ovvero non vaccini tradizionali bensì farmaci con un principio attivo e degli eccipienti, il cui effetto dipende dalla dose, dalla via di somministrazione e dalla risposta dell’organismo.
A dire che la loro efficacia e sicurezza ragionevolmente dipendono da quanta proteina spike l’organismo produce, in quali tessuti e per quanto tempo. Tutti aspetti ampiamente variabili da individuo a individuo, in dipendenza da fattori che nessuno a oggi ha mai studiato e forse anzi nemmeno ancora considerato.
La questione va probabilmente molto oltre gli accidenti tromboembolici, e riguardo alla sicurezza dei vaccini include ad esempio anche i recenti casi di miocarditi postvaccinali ad esempio in Israele, e qui un primo caso nella letteratura medica, in accordo con l‘ipotesi alquanto solida che il danno cardiaco da covid sia legato alla capacità della proteina spike di aggredire i recettori ACE2 presenti in grandi quantità nel cuore
Riconoscere la patogenicità della proteina spike ha importanti implicazioni anche per l’uso di principi attivi in grado di neutralizzarne l’azione, ad esempio quercetina e esperidina, come pure per lo sviluppo di biomarcatori di rischio per covid e per effetti avversi da vaccini, ad esempio mediante analisi di tipo farmacogenetico.

Uscire dal luogo comune “i benefici superano i rischi”

In altri termini, bisogna uscire dalla narrazione secondo cui apoditticamente “i benefici superano i rischi” e avviare studi di base e soprattutto clinici sull’azione di questi prodotti del tutto nuovi, molto più simili a farmaci convenzionali che a vaccini, allo scopo di imparare ad usarli al meglio. Sempre in attesa di vaccini tradizionali, che non pongano tutti questi problemi, e soprattutto del riconoscimento delle farmacoterapie utili a curare la massima parte dei covid se somministrate nei tempi e nei modi che insegna l’esperienza di chi dall’inizio di questa crisi ha curato con successo il covid.

 

 

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Autore dell'articolo: GG

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