Riflettiamo sul paradigma della malattia : questi sono i problemi della medicina.

Purezza in pericolo: riflettiamo un attimo sul paradigma della malattia in medicina

 

«Non c’è niente di più demenziale nel credere che delegare la gestione delle proprie libertà agli esperti porterà a dei benefici nell’interesse dei deleganti e non dei delegati. In che mondo ingenuo vivono coloro che credono nella buona fede dei governanti. Eppure è proprio a causa di questa ingenua buona fede che nessuno si è posto la domanda fondamentale: quis custodiet ipsos custodes?»

[“L’Evidenza dell’Anima”, 2020, p. 539]

 

Nel 1966 esce il grande classico dell’antropologia di Mary Douglas: “Purity and Danger: An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo”. Il testo era destinato a cambiare per sempre il modo di intendere la salute e la malattia, a partire da archetipi originari, “primitivi” e insiti nell’inconscio collettivo: il binomio puro ed impuro.

Una delle branche più prospere dell’antropologia è la cosiddetta “antropologia medica” o “antropologia della salute”, che si occupa di studiare la storia del pensiero medico e di analizzare come in diversi ambiti culturali e storici si siano sviluppati differenti sistemi medici, basati su diversi modelli di pensiero circa il concetto fondante di “salute”. Tra gli studi fondativi dell’antropologia medica c’è ad esempio la ricerca di Kleinmann sulla medicina tradizionale cinese, il sistema medico più antico del mondo insieme all’āyurveda, fondato su una concezione totalmente diversa del corpo e della salute, il che ha portato allo sviluppo di pratiche di cura altrettanto diverse da quelle della moderna allopatia biomedica “occidentale”. Ciò che però sfugge a molti è il fatto che non esista “la” medicina, ma esistano diverse idee di medicina, e la loro validità non è legata alla loro filiazione ad un pensiero piuttosto che ad un altro. Se una cosa funziona lo fa indipendentemente dall’ideologia che l’ha fondata, e dunque sono totalmente insensate quelle guerre di religione che la biomedicina fa contro i sistemi medici “alternativi” che, pur essendo più antichi e talvolta anche più complessi, non sono degni della stessa credibilità “scientifica”. Una storia del pensiero medico può aiutarci anche a vedere con occhi diversi questa spinosa questione.

Io mi occupo principalmente di India, dunque non parlerò di āyurveda ma farò un esempio per cui non potrò essere giudicato eccessivamente di parte. Se volessimo studiare con serietà il sistema medico cinese ci renderemo conto che esso non è quella banale e folkloristica parodia della medicina che vogliono far passare oggi, ma un sistema antico e profondamente strutturato che non ha nulla da invidiare ad altri sistemi medici. Uno dei più grandi docenti di medicina cinese è stato, che ci crediate o meno, l’italiano Giovanni Maciocia, autore di numerosi manuali pratici di medicina cinese. Il testo introduttivo “The Foundations of Chinese Medicine”, è lungo più di mille pagine come un qualsiasi altro testo di medicina generale, ed è solo il preambolo ad altri studi altrettanto lunghi come “The Practice of Chinese Medicine”, “The Psyche in Chinese Medicine” e “Diagnosis in Chinese Medicine” insieme ad altri che qui non citiamo per ragioni di spazio. Chiunque volesse addentrarsi nello studio di questo sistema si renderebbe conto che esso non è sbagliato, ma semplicemente propone alla base un’idea diversa dell’individuo, del corpo e della malattia, un’idea in buona parte incompatibile con la medicina occidentale, ma non per questo un’idea sbagliata. Alla medicina cinese si critica la poca attenzione anatomica, e questo perché la biomedicina occidentale si è storicamente fondata sullo studio anatomico, la stessa “autopsia” deriva originariamente dal greco autopsíā che indica un’analisi di ciò che è evidente agli stessi (auto) occhi, un esame alla vista dunque, al punto che alcuni storici la definiscono “scienza dei cadaveri” vista l’ossessione originaria per la dissezione e la catalogazione di ogni singola parte del corpo. Questa è la base del pensiero meccanicista che fonda la medicina occidentale; opposta è invece la visione cinese, che considera l’individuo come un tutt’uno e si interessa dunque dell’interazione interna tra gli organi. Vi è poi tutto il sistema di pensiero dàoista e il legame indissolubile che per la medicina cinese c’è tra l’energia vitale (), la quale può essere, tanto per tornare alla Douglas che abbiamo citato all’inizio, pura o impura, dunque benefica o patologica, direttamente correlata ai fluidi corporei (jīng) e il sangue (xuè), e non si tratta di correlazioni campate per aria, dal momento che le loro previsioni circa determinati squilibri del qì si manifestano effettivamente in modo somatico e nelle defezioni organiche, dunque il fatto che tale presunta energia non sia misurabile dagli attuali mezzi della scienza non prova che il sistema cinese sia tutto sbagliato, ma non è questo il momento per parlare di medicina cinese, presa solo come esempio per introdurre la questione del paradigma medico.

Sebbene la medicina moderna si creda al di sopra delle primitive credenze tribali, il suo paradigma discende da un pensiero ancora presente nell’inconscio collettivo dei medici, e di fatto irremovibile. Nella medicina moderna ritroviamo quello stesso dualismo originario tra purezza ed impurità che fa parte del pensiero umano “primitivo” e che forse non è proprio sintomo di arretratezza.

Semplicemente, ciò che la medicina moderna (o per essere più precisi, visto che non esiste una sola medicina ma noi in particolare ci stiamo riferendo al pensiero medico dominante in occidente ossia la biomedicina allopatica) attua è un sistema di tecnicizzazione della malattia basato sull’ideologia meccanicista. Si cerca cioè di assolutizzare il concetto di malattia.

Con il meccanicismo il paradigma della malattia viene reso ancora più schematico: si cerca cioè di creare una correlazione pragmatica tra sintomo e malattia, affinché il concetto di malattia sia scientificamente dimostrabile. Il meccanicismo si dimentica di dire che tali correlazioni sono frutto di un arbitrio, ma con questo escamotage riesce a sottrarre il dominio della malattia dalla sfera del malessere, a discrezione del soggetto e del suo sentire individuale, e di consegnarla alla sfera dell’oggettivismo. Ora su tutti i singoli cala questa interpretazione che li spossessa del significato stesso del sintomo. La malattia non è più interpretabile, ma è qualcosa che agisce ciecamente (sul problema del significato nella medicina si invita a consultare L’Evidenza dell’Anima, Edizioni Etiche Nuova Coscienza, 2020).

Per comprendere al meglio il problema della fisiologia in diversi sistemi medici complessi è necessario andare a monte, all’origine della questione fisiologica. La medicina infatti è un’arte, e l’ars medica che qui analizziamo (non è di nostro interesse la tekhnḗ come la chirurgia o altre medicine d’intervento) fonda la sua conoscenza, almeno in Occidente, su una serie di altre discipline scientifiche e umanistiche. In passato un ruolo maggiore era dato alla filosofia, oggi abolita dai corsi di laurea in medicina, ma anche la biologia riveste un ruolo di primo piano. Per il modo a compartimenti stagni in cui si struttura la scienza in Occidente, la “torre” del sapere scientifico presenta numerosi problemi di interdisciplinarietà. Mancando una teoria unificante in grado di fornire un’unica chiave di lettura per tutti i fenomeni del mondo senza far ricorso alla nozionistica e ad un numero incalcolabile di formule diverse, la naturale conseguenza del sapere scientifico è quello di strutturarsi sempre più in settori semi-autonomi i cui esponenti sono iper-specializzati nel loro ambito, e difficilmente riescono a poter contribuire significativamente anche ad un altro. L’unico rapporto conservato tra le scienze è quello verticale, per cui più si è vicini alle fondamenta e più è facile influenzare chi vive ai piani superiori, e che però non possiede tutte le competenze per potersi esprimere nel linguaggio scientifico di chi gli vive di sotto. Accade dunque non di rado che una rivoluzione nella matematica stravolga anche il pensiero della fisica, o che il pensiero della fisica cambi radicalmente il modo di fare chimica, o che la chimica si riversi sulla biologia. Un biologo ha certamente padronanza delle nozioni di chimica che gli servono, le quali però saranno ridotte rispetto a quelle del chimico, e saranno meno ancora le conoscenze di fisica che ha un biologo rispetto a quelle del chimico, che sono a loro volta meno di quelle del fisico. Ogni “scienza” prende dalle altre ciò che gli serve, ma ciò punta solo ad una crescente iper-specializzazione degli ambiti e impedisce la nascita di una teoria unificante che semplifichi anziché complicare.

 

Arti interdisciplinari Medicina

Scienze ortodosse

Biologia
Chimica organica
Chimica
Fisica
Matematica
Puro pensiero indagante Filosofia

 

La medicina, da questo punto di vista, non essendo nemmeno una scienza ma piuttosto un’arte di sintesi tra più scienze (e non), è la più sfortunata, vivendo sulla cima del castello delle discipline, dovendo prendere un po’ da tutte senza aver padronanza di nessuna. L’intera immunologia ad esempio, di cui la medicina moderna non può prescindere, è un derivato della biologia, ma il medico non è un biologo poiché manca delle competenze specifiche per dirsi tale.

In questo contesto la medicina è, tra tutte, la disciplina che più soffre della mancanza di una chiave interpretativa unica valida per tutti i fenomeni.

Dobbiamo dunque tornare all’origine, alla fonte di queste discipline, cioè la riflessione sulla realtà. La filosofia è infatti ciò che sta alla base di tutte le discipline, scientifiche e non. Se non vi fosse a monte la riflessione sul mondo o su una parte di esso, non avremmo sviluppato alcuna visione o metodo di indagine.

La medicina è probabilmente la disciplina più difficile di tutte, perché deve muoversi contemporaneamente in più ambiti del sapere, effettuare un sincretismo e saper offrire una soluzione. Il medico non è né un biologo né un chimico né un filosofo, ma per essere un buon medico bisogna (bisognerebbe) conoscere tutte queste discipline e saperle applicare nella pratica della “cura”, una cura da intendersi in senso foucaultiano, dunque non come una terapia protocollare valida per tutti, ma la capacità di saper curare le sofferenze dell’altro, siano esse fisiche o mentali, senza ridurle necessariamente al paradigma meccanicista e materialista, che è solo una chiave interpretativa che, diciamocelo, si è dimostrata abbastanza fallimentare.

Purtroppo oggi la medicina è totalmente preda del fanatismo religioso dello scientismo: subisce il fascino di quella che è una dottrina popolare, e cerca di emulare a tutti i costi il modello tecnico ed efficientista che la scienza impone: automatismi, riduzione di ogni soggettivo a oggettivo, tentare di ottenere il massimo dei risultati con l’impiego minimo dei mezzi. Per far questo spesso si scambiano cause con effetti, e si preferisce la sparizione dei sintomi al reale, e ben più lungo ed articolato, processo di guarigione. Ma l’aspetto più inquietante riguarda senz’altro la questione sociale: con la scusa della sicurezza sanitaria, la medicina sta diventando lentamente la scusa perfetta per il cosiddetto biopotere, di imporre mutamenti o stravolgimenti sociali precedentemente ingiustificabili. La salute non è più un diritto, ma un dovere i cui canoni però non sono interpretabili soggettivamente. Mentre in passato era il malato ad avere la parola sulla sua malattia, a poter decretare, in base al suo sentire, il proprio stato di salute, adesso il soggetto è esautorato anche da questa prerogativa: sono gli altri, i “professionisti”, a decidere, in base a criteri arbitrariamente elevati a universali, quali sono i canoni, i parametri e le condizioni per le quali tu possa essere definito sano, e quelle per cui invece è giustificabile privarti di ogni diritto e libertà personale per importi coattamente un trattamento sanitario obbligatorio.

Del resto, il malato è “impuro”, e l’impuro è “pericoloso”. Che fai, lasci andare in giro un impuro per la società? Così contaminerà tutti gli altri membri sani! Bisogna eradicare l’elemento impuro il più velocemente possibile, che lui lo voglia o no. Ecco dunque che chi viene riconosciuto come “impuro” è anche homo sacer, sollevato dei diritti civili e politici di cui gode il “sano”, ed è dunque permesso violare le sue libertà personali in favore di norme “correttive”. Siete liberi di applicare questa metafora antropologica alla situazione che stiamo vivendo oggi. E ora che il potere della scomunica, che assume oggi la forma della dichiarazione di “pseudoscientificità”, è in grado di decretare il discredito sociale nei confronti di qualsiasi disciplina non conforme alla vulgata medico-scientifica, c’è da temere ancor di più che non vi sia un argine contro questa preoccupante deriva autoritaria del sistema medico moderno.

 

Federico Divino

Antropologo della salute mentale e saggista. Ho conseguito la magistrale magna cum laude in “Antropologia Culturale, Etnologia, Etnolinguistica” con una tesi in Etnopsichiatria.

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Autore dell'articolo: GG

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