Corpi in vetrina
Discriminazione interna e salute mentale nella minoranza gay maschile
«Per gli uomini, eterosessuali o omosessuali, la bellezza conta molto di più di quanto lo sia per le donne»
(Dr. Scott Griffiths, psichiatra del National Health and Medical Research Council of Australia, intervista ad ABC News).
Questo articolo non piacerà a nessuno. Non piacerà né alla minoranza che sto cercando di difendere né a tutti gli altri. I primi in particolare sono in molti casi come dei tossici, avvinghiati così tanto alla loro droga da non rendersi conto nemmeno che gli fa male, e come il tossico difenderà a spada tratta la sua dipendenza dicendo “non mi fa male” o “sono io a volerlo, non me lo impone nessuno”, così la minoranza vittima dell’ipersessualizzazione e della mercificazione del corpo dirà che non c’è alcun meccanismo sociale così fortemente impositivo che spinge qualcuno a svendere il proprio corpo e la propria sessualità, che comunque loro lo fanno e scelgono di farlo perché sono “liberi” e perché lo vogliono “davvero”. Costoro devono ancora dimostrarmi come si faccia a distinguere che cosa si voglia davvero da cosa sia una volontà distorta, da ciò che si crede di volere, che in realtà aderisce alle aspettative sociali e ai meccanismi antropologici di selezione e di omologazione.
Tutti gli altri invece, che non fanno parte di questa minoranza, potranno accogliere questo articolo con disinteresse o sdegno. Dopotutto, si è fatto molto in questi anni per cercare di difendere le minoranze dalla discriminazione esterna che adesso appare inverecondo che un pazzo come me affermi che esiste anche una discriminazione interna, e che questa può essere a tratti più nociva e devastante di quella esterna.
Esiste un meccanismo di segregazione sociale, interno alla comunità gay maschile, di cui nessuno parla e che costituisce una delle principali fonti di problemi legati alla depressione, l’insoddisfazione, la mancata autoaccettazione e la dismorfofobia. È una problematica che solo nell’ultimo periodo sta iniziando ad essere studiata e che viene riconosciuta come “Intraminority Stress” e direttamente collegata alla salute mentale (Pachankis et al., 2020).
Sono un antropologo, dunque sono abituato a guardare l’essere umano sia come singolo che come parte di “gruppi”, le cui dinamiche ed i cui influssi intrecciati contribuiscono a meccanismi e processi che influiscono direttamente sull’individuo. Una delle dimensioni più trascurate è senza dubbio quella della corporeità. Il corpo, ridotto dall’ideologia meccanicista ad una serie di organi, un oggetto segmentabile e studiabile scientificamente, è in realtà il luogo della soggettività per eccellenza. Il grande pregio dell’antropologia è quello di aver recuperato la dimensione della corporeità in quanto epicentro di linguaggi e simboli del soggetto, crocevia di dispositivi culturali e sociali che vengono “incorporati”, assimilati, introiettati e prendono parte alla salute e al benessere dell’individuo. Il corpo non è una macchina, ma certamente è la parte più espressiva dell’essere. Noi ci presentiamo al mondo e agli altri come corpo, la soggettività si esprime attraverso un linguaggio fisico, tanto quello verbale che passa per il canale orale, quanto quello dei gesti, che esprime anche stati d’animo e pensieri talvolta censurati dal parlato. Proprio per questo però, un giudizio sul corpo è inevitabilmente un giudizio su noi stessi. Sebbene però noi non ci siamo scelti il corpo che siamo, e anzi “siamo come siamo” proprio perché il nostro corpo è differente da quello di tutti gli altri, un giudizio sull’aspetto esteriore inficia inevitabilmente sull’interiorità. Questo è uno dei meccanismi antropologici più potenti e al tempo stesso devastanti che esista. Per essere accettati e vivere una vita serena, dobbiamo scendere a patti col nostro corpo, ma al tempo stesso il nostro corpo deve scendere a patti con la società e la cultura vigente, e questi due inferni spesso non sono molto gentili con il nostro corpo. Ma un corpo isolato dalla società e rifiutato dal gruppo culturale di appartenenza, è inevitabilmente un corpo distrutto, un corpo frammentato. Questa è la storia di come l’ideologia meccanicista, che riduce il corpo ad oggetto feticistico (e come oggetto è mercificabile, vendibile, sfruttabile e soprattutto “godibile” come merce) si sia estesa anche a tutte le dimensioni culturali dell’interazione umana, per cui oggi nelle interazioni umane il corpo non è soggetto, bensì feticcio, merce che va presentata e venduta, e più è vendibile più è popolare ed accettabile, meno è vendibile e meno è godibile, è una merce di scarsa qualità che non merita di essere fruita. Le relazioni inter-soggettive si sono trasformate in rapporti tra consumatore e merce, e tra tutte le comunità culturali esistenti in questa società, la minoranza LGBT costituisce forse quella in cui questo meccanismo ha raggiunto le conseguenze più estreme e deturpanti a livello di salute mentale. Nello specifico, mi sono occupato di comunità gay maschile, ma presumo che gli stessi meccanismi, in forma più estesa, si possano rilevare anche in altri gruppi sociali. Quello che dobbiamo chiederci è, all’insegna dell’oggettificazione, della società scolpita a modello del mercato feticistico e della medicina forgiata dal meccanicismo, che tipo di salute si sta costruendo, e i gruppi culturali minoritari, come appunto la comunità gay maschile, cosa stanno diventando? Dopo anni di lotte per la liberazione omosessuale sembra che le cose siano tutt’altro che cambiate, se non addirittura peggiorate. La discriminazione infatti è stata portata dall’esterno all’interno. Vediamo come.
Comunità e identità culturale
La comunità LGBT costituisce una delle minoranze rilevabili nei gruppi sociali umani, ed è anche una delle minoranze che maggiormente soffre problemi di inclusione sociale e di discriminazione. Per lungo tempo le scienze sociali si sono preoccupate di studiare i problemi di uguaglianza relativi all’inclusione e all’accettazione delle persone LGBT, focalizzandosi dunque su un tipo di rapporto conflittuale tra la minoranza in questione e la maggioranza “esterna” (Schillaci, 2014).
Lungi dall’affermare che simili problematiche siano totalmente risolte, sebbene, nel cosiddetto mondo “occidentale” si stia assistendo ad una sempre maggiore accettazione sociale, nessuna indagine sociologica ha ancora dato importanza ad un crescente problema che si verifica nel mondo LGBT, e si tratta di un problema interno alla minoranza stessa, che dunque crea conflitti tra micro-gruppi sociali inerenti a questo mondo, che pertanto, pur vedendo una lenta e progressiva accettazione sociale in quanto identità ben definita nel mondo occidentale, soffre gravemente problemi di disuguaglianza ed accettazione interna allo stesso gruppo. Difatti, «ricerche considerevoli hanno dimostrato che i ragazzi e gli uomini gay costituiscono un gruppo particolarmente vulnerabile all’insoddisfazione del corpo; riportano livelli più elevati di insoddisfazione corporea rispetto agli uomini eterosessuali» (Calogero et al., 2010: 156).
Come siamo potuti arrivare ad un livello simile di disagio sociale? Abbiamo visto gli effetti devastanti che ha provocato sulle donne l’imposizione di modelli estetici irraggiungibili, ed è tempo di ammettere che anche altre comunità sono ostaggio dello stesso meccanismo.
La necessità di annunciarsi come gruppo sociale autonomo dotato di identità forti e distinguibili da un lato, e dall’altro la difficoltà di riconoscimento che gli individui di questo gruppo hanno a causa dei loro numeri esigui all’interno delle dinamiche sociali, ha portato all’estremizzazione di meccanismi di identificazione e riconoscimento, imponendo all’autocoscienza degli individui identificabili come “omosessuali” una pressione sociale non indifferente, che impone l’adesione a specifici modelli comportamentali e, soprattutto, di immagine relativa all’aspetto fisico, il superficialmente esperibile. Questo atteggiamento viene effettivamente percepito come una disparità ed è provato che ha effetti negativi sul benessere delle vittime della discriminazione (Doyle et al., 2014b: 121).
Ciò comporta una conseguenza non da poco: il sentimento di inadeguatezza da parte dei non-conformi, e la discriminazione interna nei confronti di chi non si conforma, per volontà o incapacità, alla norma interna che si è venuta a creare nella comunità gay maschile.
L’effetto dei social media
Il crescente utilizzo di applicazioni e siti di incontri, unico strumento efficace in grado di mettere in contatto in un unico luogo, seppur virtuale, un numero sufficiente di persone facenti parte della stessa minoranza — indispensabile per chi vive in piccole comunità e ha necessità di incontrarsi con altri che condividano i suoi stessi desideri—, ha portato ad una modifica antropologica degli utilizzatori di tali strumenti virtuali, promuovendo un meccanismo di mercificazione del corpo, utilizzato come vero e proprio biglietto da visita e dichiarazione di conformità alle norme sociali che ci si attende internamente a quel gruppo.
Il termine “mercificazione” non è qui usato impropriamente, dal momento che già si è riconosciuto, in tali meccanismi, un processo di “oggettificazione” del corpo nel mondo LGBT (Engeln-Maddox et al., 2011). In effetti, nel giudizio di “bellezza” dato all’apparenza fisica, un certo tipo di prestanza muscolare sembra essere l’elemento dominante nella definizione di ciò che è bello, ma è anche ciò che più rischia di trascinare i non-conformi in una serie di problematiche legate all’autostima e ai disturbi alimentari (Olivardia et al., 2004).
Ancor più dell’anoressia, che già rappresenta un problema non indifferente, il più importante dei disturbi generati da questa condizione sociale sembra essere anche uno dei meno studiati: la bigoressia. Forse legata ad un differente tipo di stereotipo socialmente imposto all’idealizzato genere maschile, e dunque inevitabilmente trasposto anche nel modello culturale di bellezza che si pretende dagli uomini anche nella comunità omosessuale, la bigoressia — l’ossessione di essere troppo esili, magri o poco prestanti da un punto di vista muscolare che porta inevitabilmente a comportamenti a lungo andare deleteri, atti a raggiungere quel modello di “bellezza” fisica che non si ha, o in altri casi alla depressione generata appunto dall’instancabile confronto che l’utilizzo dei social media propone con modelli di bellezza idealizzati e socialmente promossi —, si sta rivelando nel tempo come il problema antropologico per eccellenza che colpisce la comunità omosessuale maschile.
Chi non ha un corpo conforme viene drasticamente tagliato fuori, non ha la possibilità di essere giudicato come individuo, poiché è l’aspetto esteriore del corpo fisico che deve garantire per la sua accettazione, e in mancanza di una stretta conformità al modello (o più modelli) di bellezza ritenuti accettabili, queste persone subiscono una odiosa discriminazione interna, con conseguente sofferenza psicologica non indifferente, senso di inadeguatezza e di estromissione, che può portare ad atteggiamenti autolesionisti nel tentativo di conformarsi ad un modello che non possono raggiungere.
È dimostrato che l’orientamento sessuale influisce sui problemi legati all’accettazione del proprio corpo (Beren et al., 1996), così come sono stati evidenziati i legami tra corpo e repressione nella sessualità maschile (Caplan, 1987).
È l’antropologia della salute che deve interessarsi di questa delicata tematica, sia per le implicazioni che tali meccanismi discriminatori interni hanno sulle “vittime” dei body issue, sia perché i meccanismi, di cui sopra, sono precipuamente sociali: «è stato suggerito che la spinta a raggiungere l’ideale di magrezza è il risultato di maggiori pressioni socioculturali che sottolineano l’importanza dell’aspetto, della forma del corpo e del peso» (Yelland et al., 2003: 108). Ma non è solo l’avere un corpo magro il requisito richiesto. Infatti, anche una considerevole massa muscolare, senza la quale il corpo solamente magro appare come “privo di valore” e di “spendibilità” nella comunità gay, dev’essere ottenuta (Tiggemann et al., 2007). Ciò fa parte di un modello cognitivo idealizzato sulla bellezza maschile nella comunità gay, e dunque retroagisce come modello comportamentale, causando il grave problema di disuguaglianza interna di cui stiamo parlando.
In un articolo del 2014, Doyle ed Engeln fanno notare come nella comunità gay maschile si siano venuti a creare modelli di bellezza monolitici. Tali modelli rispondono di fatto ad uno standard, un prototipo ideale del corpo gay che deve far parte di quel gruppo (Doyle et al., 2014a: 280). È inutile sottolineare come tale meccanismo, che crea dei modelli monolitici di bellezza tanto forti (twinks, bears, leather e altri gruppi definiti nelle cosiddette “tribes”) finisca per alimentare stereotipi che danno forza ad un meccanismo di maggiore segregazione. Il meccanismo identitario che mantiene vivi questi stereotipi, prevede infatti la totale adesione al “modello” di appartenenza, ma anche la non-conformità di quelli incapaci di rientrare in uno di questi ideali imposti, e dunque inadeguati ad essere riconosciuti e scelti dagli altri membri del gruppo.
Il corpo come merce e i modelli di bellezza
Non esiste la bellezza assoluta, né la bellezza oggettiva, ma vivendo in una società totalmente ignorante di questioni antropologiche, non devo sorprendermi se costantemente la gente risponde alle mie critiche dicendo che “comunque una bellezza oggettiva c’è”, e che dunque i modelli imposti dalla società ricalcherebbero proprio quell’archetipo, scolpito chissà dove nelle menti dei suoi membri. In realtà una lettura antropologica anche elementare basterebbe per istruire questi ignoranti del fatto che la bellezza è sempre un costrutto culturale ed è culturalmente imposta. Esistono esempi sterminati riportati dagli antropologi nelle loro etnografie, che testimoniano modelli di “bellezza” presi in altre società, e che a noi appaiono strani, bizzarri o folli. Ci chiediamo come sia possibile che certe culture trovino sessualmente attraenti aspetti fisici, modi di vestire o di comportarsi che per noi appaiono ridicoli, ma non ci chiediamo invece quanto siamo ridicoli noi, che ci crediamo “evoluti”, a cadere negli stessi meccanismi primitivi di imposizione culturale dei modelli di “bellezza”. Anziché essere realmente progrediti ed accettare che ogni aspetto fisico possiede in sé un potenziale di bellezza esprimibile, aprendoci dunque la mente ad accettare ogni forma in cui un corpo si presenta, cadiamo vittime dei più banali processi di omologazione ideologica, e siamo realmente convinti che esista qualcosa di “oggettivamente” attraente. Con ciò non si vogliono giustificare atteggiamenti di trascuratezza o di disinteresse della propria salute. Ma in una condizione di benessere psicofisico, senza eccessive manipolazioni, ogni corpo possiede una sua bellezza. Ciò che facciamo oggi invece è andare oltre il benessere psicofisico, e spingere i non-conformi all’abuso di farmaci o di attività fisiche atte a distorcere il proprio corpo per farlo aderire a quell’ideale di bellezza artificiale che si impone culturalmente.
«In questa società, dove il consumismo religioso ha creato un’idea di affettività mercificata e svende la corporeità per pochi spicci, non si ha più nemmeno il senso di conservare l’immagine della propria intimità, per poterla donare in esclusiva all’altro. Oggi il corpo si mostra, si scopre per poter essere esposto come una merce da vendere, e di fatto noi ci svendiamo costantemente, scambiamo la pudicizia per repressione perché siamo passati da un eccesso ad un altro, da un’epoca in cui si mettevano le mutande anche alle gambe dei tavolini in una in cui si confonde l’Amore con il piacere dei sensi, e si cerca solo l’abbondanza, avere tanti amanti pretendendo che tutti siano speciali (poliamore), mentre proprio a causa della privazione dell’esclusività, nessuno lo sarà veramente.
In entrambi gli eccessi non si è mai provato l’Amore vero. Nell’epoca della repressione sessuale, l’amore era inesistente ed era sostituito da un contratto di unione erotica. Oggi l’amore viene di-rettamente rifiutato, considerato un vincolo, una prigione alla “libera” mercificazione sessuale. Dobbiamo dare ragione a Lacan quando dice che non esiste “rapporto” sessuale? Forse. Se ciò che chiamiamo rapporto è appunto un meccanismo di reciproca svendita della corporeità senza Amore Vero.»
(Divino, 2020: 311, 312)
Forse, un’estremizzazione di tale comportamento nelle minoranze che qui stiamo prendendo in esame deriva dal fatto che nella comunità gay maschile «l’identificazione comportamentale può essere altrettanto o addirittura più importante per il benessere rispetto ad altre forme di identificazione» (Doyle et al, 2014b: 120).
Lo studio di Doyle ed Engeln mette in risalto una verità ancora più allarmante, ossia il crescente problema del “body image disturbance”, quella forte pressione sociale, interna alla comunità gay maschile, che spinge all’ottenimento di un certo tipo di corpo, conforme al modello di cui sopra, e che conseguentemente trascina molti, incapaci di raggiungere tali standard, nel baratro della dismorfofobia, disturbi dell’alimentazione (Yelland et al., 2004) o di problematiche psicologiche legate all’autoaccettazione, alla depressione, al senso di solitudine.
Sappiamo che il determinante centrale è legato alla massa muscolare (Davis et al., 2005), ma molto sembra determinato anche dal giudizio circa la conformazione del viso, la stazza e gli altri attributi fenotipici (colore degli occhi, dei capelli, forma del naso, ecc.).
Secondo recenti ricerche gli omosessuali sono la categoria più a rischio per i cosiddetti “body issues”, cioè i problemi di accettazione del proprio corpo (Levesque et al., 2006). I disturbi più comuni che possono derivare da questa problematica sono la dismorfofobia, la depressione, l’ansia sociale (Cash et al., 2004) e disturbi alimentari (Yelland et al., 2003).
Ad ogni modo, «la ricerca sugli effetti delle discrepanze tra l’immagine corporea effettiva e ideale tra gli uomini è attualmente carente, alcuni lavori suggeriscono effetti differenziali nella sensazione di eccessiva magrezza o eccessiva obesità sui risultati dell’immagine corporea degli uomini» (Doyle et al., 2014a: 279).
Questa tendenza si inserisce in un più largo problema sociale di spossessamento del proprio corpo a causa dell’invasione delle logiche di mercato nella vita privata. La desoggettivazione impone agli individui di esporsi per potersi porre meglio «nella vetrina del mercato e della rete — e più integrale è lo spogliarello di se stessi come persone meglio ci si espone e più si richiama l’attenzione — così meno resta della persona» (Demichelis, 2015: 97).
Dall’altro lato, va sottolineato che recenti studi hanno reso chiaro che gli omosessuali maschi, insieme alle donne eterosessuali, sono i gruppi maggiormente preoccupati alla questione dell’aspetto esteriore, e ne fanno un problema sia nella ricerca del partner sia nell’autoaccettazione: «differenze nell’importanza che i gruppi attribuiscono all’attrattiva fisica e che erano coerenti con l’ipotesi che l’oggettivazione sessuale si traduca in una maggiore preoccupazione per l’attrattiva fisica. Le lesbiche erano le meno preoccupate dell’attrattivà fisica. Rispetto agli altri gruppi, hanno affermato che non era importante per loro nelle valutazioni dei loro partner, né lo ritenevano importante per i loro partner. I gay e le donne eterosessuali, d’altra parte, hanno mostrato una preoccupazione decisamente maggiore per l’aspetto fisico dei loro partner rispetto alle lesbiche e hanno pensato che il loro aspetto fisico fosse più importante per i loro partner maschi» (Siever, 1994: 256). Si configurano inoltre nuove prospettive per studiare le relazioni tra questa disuguaglianza sociale e gli atteggiamenti di mercificazione del corpo e dell’immagine e i meccanismi interni alla rivoluzione tecno-capitalista (Demichelis, 2015: 87).
Come sei non va bene: cambia o ammalati nel tentativo di farlo
I ragazzi omosessuali si sentono obbligati a recepire modelli estetici irraggiungibili. Persino le campagne di salute pubblica, specie negli Stati Uniti, quando sono rivolte agli omosessuali, mostrano uomini stereotipati con vita stretta e muscoli scolpiti, faceva notare Michael Everett il consulente psichiatrico nella rivista Psychiatric Advisor, che si occupa di prevenzione dell’HIV. Un recente studio pubblicato da Psychology of Men & Masculinity ha rivelato che il 45% degli uomini gay sono insoddisfatti della loro massa muscolare, rispetto al 30% degli uomini eterosessuali. E il 58% degli omosessuali ha detto di essere d’accordo con l’affermazione “sento una forte pressione per avere un corpo più attraente, esercitato da riviste e televisione” rispetto al 29% delle persone eterosessuali (Marcelli, 2018).
Tutto questo ha delle evidenti conseguenze sulla salute mentale dei ragazzi gay, sempre più spinti violentemente verso la bigoressia o ad una dismorfofobia devastante per coloro che non riescono a sopperire alle incalzanti richieste della società della bellezza fruibile, ma anche in quelli che si struggono per raggiungere quegli standard, corrisponde uno svuotamento progressivo della loro individualità, il senso di doversi nascondere dietro una maschera di apparenza che annulla la loro soggettività. Per tutti gli altri, inadeguati, l’unica soluzione è l’isolamento, il disturbo antisociale o la depressione.
Dover soffrire questi modelli estetici porta molti all’abuso di steroidi, cosmetici e prodotti dietetici. Mentre uno studio sui disturbi alimentari ha rivelato che gli uomini omosessuali possono soffrire di anoressia dieci volte di più degli uomini eterosessuali, e sono in una situazione molto simile a quella delle donne.
Sentirsi bene con il proprio corpo è un conto, e una persona che ne sente il bisogno ha tutto il diritto di andare in palestra e lavorare su di sé per un fisico migliore, ma ben diverso è quando si è obbligati a farlo per delle pressioni sociali insopportabili, al limite dell’esasperazione. L’adozione di un modello standardizzato di bellezza ha fatto sì che nessuno possa sentirsi bene col proprio corpo se l’aspetto superficiale non si avvicina sufficientemente a quel modello idealizzato, dunque non c’entra nulla con la salute, ma solo con l’apparenza. Questo è un grave problema sociale, dal momento che praticamente tutti, eccetto gli scienziati sociali, sono a conoscenza del fatto che i modelli di bellezza sono solo arbitrariamente introiettati nella mentalità comune, sebbene chiunque possa essere convinto che tale modello di bellezza sia “oggettivo” e assoluto, e si rifaccia dunque ad un istintuale modo di percepire il bello. Ed è proprio questa erronea convinzione che dirige i gusti della popolazione gay verso questa trappola, dove il rapporto tra individui cessa di esistere per essere sostituito da un rapporto tra immagini apparenti.
Le cause di questo fenomeno sono molteplici, ma le radici del problema risiedono principalmente nella discriminazione e nel senso di non accettazione che ciò genera. Gli omosessuali spesso non si sentono accettati e poi tendono a pensare che se hai un aspetto migliore, la gente ti apprezzerà di più. Infatti, la ricerca della legittimità sociale è probabilmente alla radice dell’ossessione per il fitness.
I media americani si sono occupati di ciò che è noto come instagay, cioè la varietà di uomini omosessuali con fisici scultorei che pubblicano le loro foto su Instagram. The Cut li definisce come stalloni gay in mostra permanente, mentre il giornalista Khalid El Khatib scrive in Vice: “con le sue centinaia di migliaia di seguaci, lo stile di vita di lusso e gli infiniti selfie in palestra, gli instagay sono l’invidia di tutti. Ma la loro ascesa segna un cambiamento nella cultura gay e pone diverse domande su quale sia il vero effetto di queste foto apparentemente innocenti”.
Per rendersi conto che i muscoli sono importanti nell’abbordaggio tra uomini gay è sufficiente aprire una delle applicazioni per incontri come Grindr, dove almeno il 40% degli utenti sceglie come foto di profilo la propria immagine senza vestiti.
Forte categorizzazione identitaria basata sull’aspetto esteriore, un giudizio che porta inevitabilmente ad una crescita vertiginosa dell’insoddisfazione verso il proprio corpo (Goedel et al., 2017) o appunto “dismorfofobia”.
Uno studio effettuato su Grindr, ha dimostrato che effettivamente l’uso del social network contribuisce enormemente al senso di oggettificazione del corpo attraverso l’imposizione sociale, all’interno di quella comunità, di modelli di aspetto fisico ideale basati sul peso, la prestanza fisica e l’aspetto in generale. L’articolo in questione (Filice et al., 2019) rileva tre dispositivi in particolare su cui si delinea la discriminazione: “weight stigma”, “sexual objectification” e “social comparison”.
Sembra inoltre che app di grande portata come Grindr, tendano a favorire maggiormente il processo di oggettificazione dei corpi (Anderson et al., 2018). Le vittime di questi “grandi sistemi” ai quali sembrano applicarsi automaticamente le stesse logiche di mercato appaiono essere inevitabilmente imposte ad un unico modello di ragionamento.
Gli standard di bellezza non esistono solo per le donne, ma anche per gli uomini, e possono essere altrettanto irraggiungibili e mortificanti. Anche gli uomini si sentono a disagio se sono troppo bassi o troppo alti, troppo magri o troppo grassi, se perdono i capelli o se non riescono a farsi crescere la barba. Ma il loro disagio non è percepito come tale.
Ipersessualizzazione
Un altro devastante meccanismo antropologico fa scivolare lentamente verso l’insoddisfazione: lo stigma contro i “non-sessualmente disponibili”.
Per chi non ha la fortuna di essere contemporaneamente una persona carismatica, residente in una grande città e amante della movida, conoscere altre persone, specie se appartenenti alla propria stessa “minoranza” sessuale, è un’impresa quasi impossibile, e dunque l’utilizzo di social network e app di incontri è una scelta obbligata. Io sono stato catapultato in quella macelleria virtuale più volte alla ricerca di nuove conoscenze e dunque ho vissuto in prima persona tutti i meccanismi di isolamento e discriminazione interni alla comunità di quelle app. Sono una persona dalla corporatura molto esile, incapace di mettere su massa grassa ma anche muscolare, se non con molta più fatica di altre persone. Come esistono metabolismi lenti esistono anche metabolismi veloci, non dovrebbe essere una sorpresa, ma sorprenderà sapere che anche le persone molto magre sono discriminate per il loro corpo non-conforme ai modelli di bellezza e percepito come “amorfo”. Di mio c’è anche un atteggiamento di generale sdegno per l’esposizione delle carni, che dunque mi ha sempre portato ad escludere il dialogo con coloro che non si facevano problemi a mostrare le proprie parti intime su internet, come se fossero oggetti da comprare. Alla fine però, dopo un lunghissimo periodo, ho deciso di piegarmi al sistema, e dopo innumerevoli fatiche atte a raggiungere una forma fisica più “appetibile” al mercato delle carni, non ho raggiunto comunque alcuna soddisfazione. Perché?
Questo è un meccanismo che ho riscontrato anche in altre persone che hanno vissuto una situazione analoga. Dopo aver infatti modificato il proprio corpo per conformarlo alle aspettative sociali, l’insoddisfazione non se ne andrà comunque, perché le attenzioni ricevute dalla comunità, non derivano da un reale interesse per te in quanto persona, ma per te in quanto “buona merce”. Questo potenziale trauma in realtà porta ad una maggiore consapevolezza del problema: cambiare l’apparenza non cambia la sostanza, e cambiare l’apparenza solo per sentirsi più accettati è solo un processo effimero, che non porta a nulla. Certo, se sei una persona effimera e superficiale e ti accontenti delle lodi di chi si interessa a te solo per il fisico e l’aspetto esteriore, allora quello è il tuo paradiso, ma poi, chissà come mai, tutti si sentono vuoti e insoddisfatti alla fine della fiera.
Si può pensare che a questo punto la soluzione sia orientarsi verso qualcosa di più profondo, un legame reale e non solo uno scambio sessuale, ed è qui che si attiva la seconda trappola. La società moderna infatti ha demonizzato a tal punto la relazione affettiva da renderla una specie di tabù. Nessuno cerca più un rapporto profondo in una relazione, ma anzi si interessano tutti al superfluo, al godimento immediatamente fruibile di lacaniana memoria. Anzi, coloro che cercano qualcosa di più “platonico”, sono soggetti al medesimo meccanismo di scherno e isolamento sociale, in grado maggiore proprio nella comunità gay maschile, che è diventata vittima di una ipersessualizzazione e distruzione degli “intenti platonici” (Jaspal, 2017). Tutto ciò che riguarda una relazione affettiva viene immediatamente schernito e bollato come un vetusto costume ormai in disuso, una cosa in cui nessuno ormai crede più. Adesso vige l’ipersessualizzazione permanente, e coloro che non sono disposti ad offrire il loro corpo per la libera fruizione dei consumatori, sono denigrati, considerati dei santarellini, dei puritani, ridicolizzati e sottoposti allo stesso meccanismo di isolamento dei non-conformi che avveniva per i modelli di bellezza. All’ideale di bellezza va dunque affiancato un ideale etico, che prevede una disponibilità totale a cedere il proprio corpo alla comunità ed alle sue logiche di mercato.
Essere riconosciuti come elementi non sessualmente disponibili, anche se si ha l’aspetto conforme all’ideale di bellezza, equivale comunque ad una denigrazione e conseguente esclusione dalla comunità, dove vige il “così fan tutti”, e dunque il “così vogliono tutti”, e se tu non vuoi quello che vogliono tutti, allora non sei dei nostri.
Tutto questo dovrebbe farci riflettere anche sulle relazioni che esistono tra tutti gli altri social media, che siano pensati per incontri o meno, e salute mentale degli utilizzatori che cadono inevitabilmente vittime dei meccanismi di mercificazione della persona. Su internet non vige la verità, ma l’immagine di sé, e questa immagine può essere modificata e distorta per essere presentata come un prodotto maggiormente apprezzabile, dunque “vendibile” nel mercato online. Inizialmente internet non era così. Ai suoi esordi il web si presentava come il luogo dove essere realmente sé stessi, liberi dalle maschere e i ruoli imposti dalla società. Col tempo invece, al crescere della popolazione del web, le stesse dinamiche sociali che vigevano nel mondo esterno sono state trasposte nel mondo digitale, ma da quest’ultimo amplificate, ingigantite e portate all’estremo, al punto che adesso la società esterna sembra più vera del mondo del web, dove invece le logiche di mercato sono reificate al massimo. La persona adesso è il prodotto-persona, e come tale deve comportarsi. Quali siano le conseguenze sulla salute mentale di chi è costretto, obtorto collo, ad accettare festosamente questa nuova modalità di relazione sociale è presto detto e lo abbiamo visto finora. È nella sfera dell’intimo, nelle relazioni private e nella sessualità che questo meccanismo sociale dà il peggio di sé. Nelle minoranze gli effetti sono ancora più devastanti: uno studio sempre effettuato sulla comunità gay maschile ha dimostrato che l’uso dei social media incrementa la dismorfofobia, i disturbi alimentari e l’abuso di farmaci come steroidi anabolizzanti (Griffiths et al., 2018).
Riflessioni finali
È davvero possibile esimersi da queste dinamiche sociali? Molto difficilmente, visto che ormai tutti, volenti o nolenti, sono invitati a prendervi parte. Oggi chi non ha un social network è effettivamente escluso dalla società, è fuori dal mondo, ma se per un ragazzo o una ragazza è ancora possibile costruirsi una vita e dei rapporti intimi senza necessariamente far uso dei social media, per chi fa parte delle cosiddette minoranze sessuali, il compito è pressocché impossibile. Non siamo, per fortuna, nel regime nazista in cui agli omosessuali veniva imposto un segno distintivo sugli abiti (il famoso triangolo rosa), ma è anche vero che nella società esterna, dove ancora esistono molti pregiudizi, non si gira certo con una scritta in fronte che indica la nostra sessualità, e dunque per fare nuove conoscenze si è costretti a prendere parte a certi ambienti, nei quali però le dinamiche sociali sono soggette a queste regole restrittive. Internet avrebbe potuto rappresentare uno strumento eccezionale per permettere nuove conoscenze anche all’interno di gruppi minoritari, e invece si è trasformato in una versione all’ennesima potenza di un bordello.
Tutti sono soggetti alla mercificazione della propria immagine. Uno studio del 2004 ha dimostrato come anche gli uomini etero siano ugualmente soggetti a meccanismi di mercificazione della propria “body image” a seguito dell’utilizzo dei social media (Agliata et al., 2004). Questo studio sembra dire l’ovvio, ma l’ovvio non lo nota mai nessuno. L’uso dei social network tende a promuovere una “immagine ideale” del corpo, tanto maschile quanto femminile. Della mercificazione del corpo femminile si parla fino allo sfinimento, ma le chiacchiere al vento sono così inutili che questo meccanismo non solo procede indisturbato, ma è chiaramente esteso anche alla comunità maschile, dove i danni psicologici sono evidenti. La lunga esposizione, oserei chiamarlo “bombardamento mediatico”, attraverso i social media, ad immagine di corpi ideali, promuove, non a caso, l’aumento di dismorfofobia, “body dissatisfaction”. Essere continuamente sottoposti alla visione di corpi “ideali”, il cui messaggio nemmeno troppo subliminale recita “così dev’essere un uomo” / “così dev’essere una donna”, ha come effetto evidente una disastrosa conseguenza sulla salute mentale di chi non si riconosce in quei modelli, non viene riconosciuto o socialmente accettato dalla comunità come aderente a quel particolare modello di bellezza, o si ritrova incapace di raggiungere simili modelli. Una grande ipocrisia infatti risiede in coloro che dicono ai “brutti”, ossia ai non-conformi, che basta poco per migliorare sé stessi, con un po’ di impegno tutti possono avere un fisico scolpito. A parte l’evidente idiozia che soggiace nel credere che tutti debbano avere quel determinato corpo, non si ha contezza della soggettività che ogni essere umano possiede, il che rende impossibile per alcuni, non importa quanto impegno venga messo, raggiungere certi standard fisici. Anziché valorizzare la bellezza potenziale che ha ognuno nella propria diversità, si è caduti vittime del più banale ed infantile dei meccanismi: l’elevazione di un unico modello di bellezza a prototipo del bello assoluto, e la sua conseguente imposizione a tutti i membri della società attraverso un bombardamento mediatico che premia i conformi e deride, isola ed esclude i non-conformi, ai quali non resta che l’unica opzione di tentare disperatamente di raggiungere un modello che può anche rivelarsi inarrivabile (da cui l’abuso di farmaci come gli steroidi anabolizzanti) o in alternativa quello di cadere in depressione, nella non-accettazione di sé e del proprio corpo, riservato ai poveri “sfigati” che non riescono a raggiungere quel modello di bellezza per loro impedimenti biologici, o semplicemente non vogliono stravolgere il loro aspetto per piacere agli altri.
La psichiatria e la psicologia, che non tengono conto delle dinamiche culturali possono fare ben poco per informare ed arginare questo fenomeno. Certe terapie non devono agire sull’individuo, ma sulla società. Questo articolo vuole sensibilizzare sulla necessità di una etnopsichiatria ed una nuova antropologia. Sarebbe ora di finirla con le psicologie del conformismo (vedasi comportamentismo e cognitivismo) che concepiscono solo terapie atte a modificare il comportamento del “malato” per adattarlo o renderlo conforme alle aspettative sociali. Queste terapie concepiscono la sanità al pari dell’accettazione sociale, e non sono in grado di concepire che magari è proprio la società quella malata. Che dire ad un giovane che si presenta in studio e lamenta una non-accettazione di sé e del proprio corpo? Lavorare sul soggetto, secondo il mio modestissimo parere, può servire a ben poco, ed anche qualora funzionasse, non sarebbe altro che un cercare di reprimere le vere cause del disagio, nascondendo la polvere sotto al tappeto. Sì, adesso mi accetto, ma gli altri no. Gli altri continuano a vedermi come un non-conforme, e allora puoi star certo che, pian piano, a forza di vivere in questa situazione, smetterò anch’io di accettarmi, e così via all’infinito.
Le terapie che agiscono sui cosiddetti “body issues” possono fare ben poco finché non si rendono conto che la malattia è socialmente indotta. Non serve a nulla lavorare sull’autoaccettazione se un’ora dopo il soggetto si trova nuovamente nella società che lo bombarda di stereotipi e modelli di bellezza imposti. L’autoaccettazione serve e funziona in una società sana, non in una società patogena come questa, dove si promuove costantemente la malattia. Spero che questo piccolo contributo possa offrire a molti la possibilità di riflettere sul ruolo che ha la dimensione sociale e l’ambiente culturale nell’insorgenza di certi disturbi, e magari possa spingere ad una maggiore sensibilizzazione che porterà, si spera, ad un rifiuto di ogni imposizione circa modelli di bellezza e di comportamento. Jiddu Krishnamurti diceva «Non è segno di salute mentale essere ben adattati ad una società profondamente malata». Forse è il caso di ricordarcelo.
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Federico Divino
Antropologo della salute mentale e saggista. Ho conseguito la magistrale magna cum laude in “Antropologia Culturale, Etnologia, Etnolinguistica” con una tesi in Etnopsichiatria.